Lo studio è stato condotto da ricercatori degli atenei di Catania e Milano e dai centri di ricerca
Glickman Urological and Kidney Institute di Cleveland e IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni
Il rischio di sviluppare il carcinoma epatocellulare (un tipo di cancro al fegato) è circa il doppio nei pazienti con diabete mellito rispetto a quelli senza. Questo suggerisce che il diabete mellito potrebbe accelerare il processo di formazione del cancro al fegato attraverso vari meccanismi.
È quanto emerge dallo studio – dal titolo Role of gliflozins on hepatocellular carcinoma progression: a systematic synthesis of preclinical and clinical evidence - condotto dai ricercatori Livia Basile, Rosita Condorelli, Aldo E. Calogero e Sandro La Vignera del Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Catania, Rossella Cannarella dello stesso dipartimento di Unict e del Glickman Urological and Kidney Institute della Cleveland Clinic negli Stati Uniti e Paolo Magni del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università di Milano e dell’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni (Milano).
«Studi recenti hanno evidenziato che i farmaci inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i), utilizzati comunemente per trattare il diabete mellito di tipo 2, potrebbero avere anche effetti positivi sulla salute del fegato – spiegano i ricercatori -. Questi farmaci sembrano promettenti anche nel trattamento del carcinoma epatocellulare nei pazienti diabetici».
Per approfondire questa possibile relazione, i ricercatori hanno esaminato articoli scientifici nei database PubMed e Scopus, cercando di investigare un possibile legame tra l’uso degli SGLT2i e il carcinoma epatocellulare, cercando di capire i meccanismi che potrebbero spiegare gli effetti di questi farmaci nel contrastare la crescita del cancro al fegato.
«Abbiamo potuto selezionare un totale di 24 articoli, di cui 14 preclinici (su modelli animali e cellulari) e 10 clinici (sugli esseri umani) – spiegano -. Gli studi preclinici sono stati condotti principalmente usando la canagliflozina, un farmaco della classe degli SGLT2i, testata sia da sola che in combinazione con altri farmaci».
«I risultati hanno mostrato che la canagliflozina riduce la proliferazione delle cellule tumorali del fegato, influenzando negativamente varie vie metaboliche, dipendenti e indipendenti dal glucosio, e ostacolando la neoangiogenesi, ossia la formazione di nuovi vasi sanguigni, un processo fondamentale per la crescita del tumore», aggiungono i ricercatori.
«Inoltre – precisano -, induce la morte programmata delle cellule tumorali in modelli sperimentali. Nei modelli animali, la canagliflozina ha anche mostrato effetti protettivi contro la steatosi epatica (accumulo di grasso nel fegato), la fibrosi (cicatrizzazione del fegato) e lo sviluppo del carcinoma epatocellulare. Gli studi clinici condotti sugli esseri umani suggeriscono che i pazienti trattati con gli SGLT2i potrebbero avere un rischio inferiore di sviluppare carcinoma epatocellulare, anche se questi risultati provengono da ricerche retrospettive e richiedono conferme».
In chiusura i ricercatori sostengono che occorrano ulteriori studi clinici per stabilire definitivamente se esista una relazione causale tra l’uso degli SGLT2 e la riduzione del rischio di carcinoma epatocellulare.