Cecilia Sala e i racconti dal “fronte dell’odio”

La giovane inviata di guerra, detenuta in un carcere iraniano nel dicembre scorso, è stata ospite di un affollato incontro del ciclo “SUPERTalks” della Scuola Superiore di Catania 

Mariano Campo

«L’attenzione dei giornalisti e dell’opinione pubblica sugli scenari di guerra non fa miracoli, non risolve da sola i conflitti, ma è tutt’altro che irrilevante». Per Cecilia Sala, giovane giornalista per Il Foglio, L’Espresso e Vanity Fair, raccontare il mondo e le sue sofferenze continua ad avere senso e importanza: «La pace o la tregua vengono decise dagli Stati e dagli eserciti, è inutile negarlo – ha spiegato al pubblico che ha gremito l’auditorium dei Benedettini giovedì 30 ottobre, rispondendo a una precisa osservazione della presidente della Scuola Superiore di Catania Ida Nicotra sui rischi e le conseguenze dell’indifferenza –. Mantenere i riflettori accesi sulle tragedie più o meno note che ogni giorno si consumano in paesi come Ucraina, Palestina, Sudan o Afghanistan ha però un suo peso innegabile, come del resto è avvenuto con le manifestazioni in tutto il mondo a favore di Gaza».

Nei SUPERTalks!, il ciclo di incontri promossi dalla Ssc, c’è ampio spazio di manovra per gli allievi della Scuola, e, infatti, la studentessa Beatrice Magrì, a cui è affidato il compito di proporre delle domande, dopo l’introduzione della sua collega Arianna Pedone, chiede senza mezzi termini alla Sala, considerata una delle voci più originali del giornalismo italiano a dispetto della sua giovane età, se il suo mestiere, controverso e spesso criticato, sia effettivamente ancora così necessario. «Ogni anno centinaia di giornalisti – ha risposto Sala – vengono minacciati, censurati, assassinati. È un lavoro senza dubbio molto pericoloso per chi lo fa con il desiderio di raccontare ciò che accade davvero, ma quanto è avvenuto anche a Gaza conferma che il giornalismo serve, eccome, ed è temuto».

In foto da sinistra Cecilia Sala, Ida Nicotra e Beatrice Magrì

In foto da sinistra la giornalista Cecilia Sala, la prof.ssa Ida Nicotra e l'allieva della Ssc Beatrice Magrì

«L’attenzione dei media, dopo le manifestazioni di ribellione in Iran – cita ad esempio – è riuscita a migliorare leggermente la condizione delle donne nella rigidissima Repubblica islamica; al contrario, non appena è scoppiata la guerra in Ucraina e gli occhi del mondo si sono spostati sui carri armati di Putin, il regime talebano, a riflettori spenti, ne ha approfittato per imporre divieti durissimi e discriminazioni alle donne afghane. 

«Il buon giornalismo preoccupa, mette ansia al potere – ha aggiunto – e per questo sta pagando un prezzo altissimo in un momento in cui il diritto internazionale è talmente disatteso che viene considerato normale sparare addosso a chi indossa i giubbotti con la scritta ‘press’, avendo praticamente certezza dell’impunità».

Ne I figli dell’odio, libro pubblicato recentemente per Mondadori dopo “L’incendio” del 2023, la giornalista ha riportato numerose storie di persone, soprattutto giovani, cresciute in scenari estremi, tra guerre, rivoluzioni e crisi dimenticate. Da qui il suo racconto si è esteso all’analisi della radicalizzazione di Israele, iniziata con la progressiva colonizzazione di Hebron e della Cisgiordania (l’ha definita il primo “laboratorio dell’occupazione”) fino all’eccidio del 7 ottobre 2023, con una serie di attacchi terroristici di gruppi armati guidati da Hamas e l’uccisione tra 1200 civili e militari israeliani, molti dei quali bambini e anziani.

Il pubblico presente all'incontro

Il pubblico presente all'incontro

E a chi le chiede se, dopo tutto ciò che ha visto, ritenga possibile una pace tra i due popoli, risponde con disarmante realismo: «Se dipendesse solo da israeliani e palestinesi, ci vorrebbero secoli. C’è troppo odio, troppi rancori comprensibili, troppa paura reciproca. Una paura che rende impossibile – oltre che indesiderata – qualsiasi reale integrazione dei palestinesi come parte, seppur tutelata, della società israeliana. Servirebbe piuttosto una sorta di divorzio, una “pace armata” tra due entità autonome, capaci di autodeterminarsi, come accade tra le due Coree. E poi lasciare che sia il tempo a fare il resto. Ma prima – aggiunge – bisogna cancellare il peccato originale: porre fine all’occupazione».

Arrestata il 19 dicembre 2024 a Teheran con la generica accusa di aver violato le leggi locali, la giornalista Cecilia Sala è rimasta detenuta per 21 giorni nel carcere di Evin, una delle prigioni più dure dell’Iran. La sua liberazione, avvenuta l’8 gennaio scorso, è stata possibile grazie a negoziati riservati condotti dal Governo italiano.

Al termine dell’incontro, Sala ha voluto condividere una riflessione intensa su quell’esperienza: «La mia vicenda mi ha permesso di vivere in prima persona una storia simile alle tante che ho raccontato negli anni. Mi ha aiutato a capire più a fondo quelle già narrate e, per fortuna, mi ha dato la possibilità di tornare presto a raccontarne di nuove, con maggiore consapevolezza».

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