Stefania Auci, tra i docenti ospiti del Laboratorio di scrittura creativa – organizzato dall’Università di Catania in collaborazione con la Scuola Itaca – si racconta ai microfoni di UnictMagazine
Cu nesci, arrinesci («Chi esce, riesce») scrive Stefania Auci all’inizio del Prologo de I Leoni di Sicilia, romanzo bestseller uscito nel 2019 per i torchi di Editrice Nord e prima parte di una saga che comprende anche il successivo L’inverno dei Leoni, pubblicato nel 2021 dalla stessa casa editrice. Il noto proverbio siciliano – che Auci interpreta come la possibilità, per «chi lascia la propria zona di sicurezza, di esplorare nuovi confini, anche all'interno di sé stessi», per trovare «qualcosa di più rispetto al consueto» – ben si presta anche per definire l’obiettivo primario perseguito dal Laboratorio di scrittura creativa, organizzato dall’Università di Catania in collaborazione con la Scuola Itaca: salpare verso terre poco conosciute, concedersi l’opportunità di allontanarsi da sé e dalla propria zona di comfort per accettare l’imprevisto e scoprire potenzialità inedite in un cammino di ricerca e sperimentazione costanti. Questa sfida, per le studentesse e gli studenti partecipanti, è stata riproposta, variamente declinata, da ogni docente del corso, compresa la scrittrice, trapanese di nascita e palermitana d’adozione, Stefania Auci, intervenuta nei giorni scorsi al Centro Universitario Teatrale.
Laureata in giurisprudenza, Stefania Auci è insegnante di sostegno a Palermo e autrice di saggi e romanzi storici, un’anima gentile, aperta a contaminazioni e influenze tra le più variegate, che è riuscita a far appassionare anche i giovanissimi a un genere spesso poco frequentato, ma che, per lei, rappresenta «uno strumento fondamentale per la conoscenza del nostro presente, per spiegarsene le ragioni». Le sue masterclass, dunque, non potevano che cominciare da un approfondimento sul genere. Stefania Auci ha ripercorso le principali tappe che hanno segnato l’evoluzione del romanzo storico, dai primi passi con Walter Scott alla rifondazione di Eco fino alla contemporaneità, presentando e analizzando gli esempi più significativi: i classici hanno preso il loro posto sul tavolo e, ciascuno con le proprie caratteristiche – tali da renderli, in alcuni casi, interessanti rielaborazioni e/o intersezioni di generi diversi, come per Il nome della rosa di Eco – hanno contribuito a delineare il ritratto di un genere quale è il romanzo storico che ha affascinato le studentesse e gli studenti del laboratorio e fornito interessanti spunti di riflessione.
Ma, se, da un lato, la scrittrice si è impegnata a rinsaldare la conoscenza di un genere complesso, eppure vitale, fornendo nuova linfa per la crescita dei ragazzi, d’altra parte, è riuscita a trasformare un laboratorio teorico – quanto meno durante la prima lezione – nella sua diretta realizzazione pratica, invitando gli allievi a scegliere una storia, anche ripresa dal passato dei propri nonni, e a darle forma in un piccolo racconto storico. Nessuna limitazione sullo stile e/o sui temi affrontati, solo un requisito: ogni scritto avrebbe dovuto mostrare con evidenza la scelta dell’autore o dell’autrice verso un periodo storico determinato, ben riconoscibile e connotato adeguatamente.
Così, Stefania Auci si è dedicata, nel suo secondo giorno di masterclass, esclusivamente alla lettura degli elaborati delle ragazze e dei ragazzi selezionati, fornendo consigli pratici, da editor, e suggerendo soluzioni alternative per migliorare l’efficacia della composizione. Il contributo dell’autrice è stato fondamentale nel percorso intrapreso dagli studenti, Auci ha portato la sua esperienza, condividendo anche le difficoltà di una professione, che non solo fa sanguinare davanti alla macchina da scrivere, come ripeteva Hemingway, ma strappa via anche la carne: per scrivere è necessario avere pazienza, perseverare nell’intenso lavoro di labor limae che ti consuma, mentre sei invaso da un’ossessione per la cura del dettaglio e la scelta delle espressioni giuste. Il primo risultato quasi mai è anche quello più efficace, ma, stesura dopo stesura, ci si innamora un po’ di più del processo creativo e questo consente di trovare sollievo nella scrittura, definita dall’autrice anche «un modo per risparmiare sullo psicologo».
Proprio quest’ultima espressione rivela alcuni aspetti peculiari della personalità di Stefania Auci e del suo modo di lavorare/ insegnare: una donna spontanea e divertente, sincera ed empatica, che ha saputo affrontare ogni tema nella maniera più appropriata, ha donato il suo tempo e sé stessa per rispondere – anche durante brevi pause caffè – alle domande curiose degli studenti, sul mondo editoriale e sugli adattamenti cinematografici di romanzi storici, e ha offerto infiniti consigli di visione e lettura, annullando i confini tra media solo apparentemente separati tra loro.

La scrittrice Stefania Auci insieme con le studentesse del corso
La scuola oggi, da educatrice a industria della performance
Quest’intervista è il risultato di uno scambio iniziato nel mese di febbraio e mai interrotto, è un frammento prezioso, che può rimanere nella memoria anche di chi non era presente. Filo conduttore dell’intervista è la passione per la scrittura, unita, tuttavia, a una forte propensione per il sociale. Auci ha portato la sua sensibilità a tematiche urgenti che la interessano da vicino – come insegnante prima ancora che come scrittrice e cittadina – e che ha affrontato, insieme a Francesca Maccani, nel saggio La Cattiva Scuola, pubblicato nel 2015. La sua è una posizione privilegiata che le consente di percepire i cambiamenti di una società, di comprendere le difficoltà e le carenze di alcuni contesti – come il quartiere di Palermo in cui insegna – ma, soprattutto, di constatare quanto la scuola abbia iniziato a divergere dal suo ruolo di educatrice, trasformandosi nell'industria della performance.
Per quanto scrivere la appassioni, Stefania Auci rimane critica verso il mondo spietato che ingoia e annienta ogni scintilla, scoraggiando ogni nuovo tentativo di affermazione in ambito artistico: anche dopo la pubblicazione la ferocia delle critiche non si arresta e come una ‘fiumana’ cerca di trascinare via chi tenta di resisterle. E, a proposito di Verga, la sua e, più in generale, la produzione letteraria siciliana – tra cui Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e I Viceré di Federico De Roberto, i cui echi sono immediatamente percepibili leggendo I Leoni di Sicilia – rappresenta la sua principale ispirazione, insieme al resto della tradizione dialettale (Camilleri, Lo scialo di Pratolini) e ai classici della letteratura italiana ed estera (una citazione da Paradise Lost di John Milton compare all’inizio de I Leoni di Sicilia).
Queste letture hanno nutrito Stefania Auci, che si definisce «una formica sulle spalle dei giganti», e influenzato alcune sue scelte, in particolare riguardo la questione linguistica nel suo romanzo: l’inserimento del dialetto, sempre spiegato o parafrasato, «diventa una scelta di campo» – come rivela l’autrice – e, se, «da una parte, permette di raccontare la storia con maggiore forza, dall'altra, permette al lettore di entrare meglio» e inserirsi tra le maglie del racconto. Auci custodisce questi testi e i loro insegnamenti dentro di sé, ma non vi si paragona e, anzi, preferisce che nessuno lo faccia. Certo è, però, che essi rimangono vivi in lei, li rielabora, e omaggia, seguendo e assecondando i mutamenti della storia dei Florio: i personaggi le si animano davanti e le rivelano dettagli inediti – come di un pregresso nella relazione tra Ignazio e Giuseppina – spazi in cui la sua immaginazione può mescolarsi alla rigida realtà storica.
I Leoni di Sicilia, la storia di una famiglia, gli «ambulanti del mare» che tentarono di «far aprire gli occhi a Palermo» che, al contrario, «li tiene ben chiusi», una colpa che la città non perdona, come ammette Vincenzo Florio, ma che, in fondo, è il peccato di molti, anche di chi, ad esempio, si è opposto alla mafia.