“Ci sono direttori con la partitura in testa e altri con la testa nella partitura”

Aida sarà in scena il 9 febbraio al teatro Vittorio Emanuele di Messina. In dialogo con il direttore d’orchestra Carlo Palleschi

Irene Isajia

Giuseppe Verdi è un gigante della composizione per coloro che lo studiano con grande umiltà, quella che ho incontrato intervistando il maestro Carlo Palleschi che dirigerà l’orchestra di Aida, in scena il prossimo 9 febbraio al Teatro Vittorio Emanuele di Messina con la regia di Carlo Antonio De Lucia.

L’opera verdiana, tra i capolavori del compositore di Bosseto, fu attesa a lungo prima che Verdi accettasse di scriverla. Il viceré d’Egitto conosceva lo spessore musicale di Verdi e scelse proprio lui per un’opera che potesse aprire l’Egitto alla cultura occidentale nello straordinario evento che celebrava l’inaugurazione del canale di Suez. Per comprendere il peso e l’importanza della figura del direttore d’orchestra bisogna entrare nello sguardo dello stesso compositore sull’opera, che volle completo controllo anche sulla realizzazione del libretto, sull’allestimento e sulla scelta del cast. Un approccio quasi “maniacale” ad un’opera che per lui non era pura circostanza. L’opera fu un successo sin dalla prima esecuzione a Il Cairo, il 24 dicembre del 1871.

È sicuramente un’opera gigantesca – si dice – nella musica, nelle scenografie, nelle presenze in scena ma paradossalmente è profondamente umana e intima. Giuseppe Verdi, rispetto ai suoi contemporanei, ama raccontare il vero attraverso la musica ma anche con un approccio nuovo alle voci dei protagonisti e all’aspetto naturalistico della recitazione. Con queste premesse come si approccia un direttore d’orchestra ad Aida?

«Mi approccio come a tutte le opere che sono un capolavoro dell’ingegno umano – racconta il maestro Palleschi –. C’è grande rispetto e tantissima ammirazione. Ogni volta che si studia una di queste partiture, si è davanti al lavoro di un uomo, alla sua dedizione, che lo ha condotto a toccare certe vette maneggiando la sua arte. Potremmo dire che è la stessa sensazione di colui che si trova davanti ad una scultura di Canova, ad un quadro di Caravaggio, allo stesso modo è per le opere di Verdi, un’aura estetica che si coglie solo dinanzi all’opera di un grande artista. Aida è un’opera della maturità di Verdi e si coglie l’arco evolutivo di un compositore che ha saputo rinnovarsi, padroneggiando con sapienza il mestiere».

«Comporre non è cosa facile: il compositore ha l’opera nella sua mente, delinea i personaggi, immagina le scene, i movimenti, ma anche i sentimenti interni ai personaggi e le atmosfere del racconto – aggiunge -. Ha la responsabilità di creare uno spettacolo che “funzioni” e Aida è stato un successo da subito perché l’arte del compositore si riconosce nel saper dosare bene gli elementi a sua disposizione. Oggi ho più o meno l’età di Verdi quando scrisse Aida e l’esperienza per capire il suo percorso, perché sia rimasto affascinato da questo soggetto, i motivi che lo hanno spinto a scrivere l’opera e la passione con cui ha creato la musica idonea perché questa vicenda teatrale profondamente umana».

Nella struttura drammaturgica di Aida possiamo rilevare due finali speculari: il primo al termine del secondo atto mostra la vittoria celebrata dell’Egitto sull’Etiopia; il secondo finale lo ritroviamo a conclusione del quarto atto nella vittoria dell’amore, nella morte di Aida e Radames, contro le beghe del mondo. Come lo racconta Verdi in musica?

«È chiaramente un racconto opposto: da una parte c’è una vittoria terrena, celebrata con un trionfo e con la disperazione della protagonista – risponde il maestro -. Assistiamo ad un’apoteosi sonora, un clangore eccezionale fatto da solisti, bande sulla scena, trombe egiziane, più cori. Viene anche ripreso il tema della marcia trionfale sul finale. Non si tratta solo del trionfo di un popolo ma c’è anche la scelta del re di affidare la figlia al condottiero che ha vinto; c’è il popolo che osanna; Amneris è tronfia della sua vittoria sulla rivale, che è Aida, che si dispera. Il finale del quarto atto è invece affidato all’aspetto intimistico: Aida muore insieme al suo amato Radames, che – suo malgrado – è stata costretta a tradire. L’amore e la vita dei due amanti finisce, e svanisce lentamente in un pianissimo, leggerissimo ma ricco di grande profondità. Due vittorie restituite in maniera opposta dove l’umanità emerge con forza».

Verdi, nel raccontare l’umanità dei personaggi, sceglie spesso di diminuire i volumi della musica per lasciare spazio alle voci, a scene di recitativi, perché il pubblico possa vedere il personaggio dentro e non solo esteriormente. Come si presenta questo aspetto in Aida?

«La critica, non a caso, definisce Aida quasi un’opera da camera, un’opera intimistica – precisa -. Nonostante il trionfo, l’esercito, la consacrazione, i sacerdoti, le trombe, bisogna anche dire per due terzi l’opera è fatta di situazioni dove c’è “intimità”: troviamo il solista da solo come Aida che canta nella scena prima del terzo atto mentre aspetta Radames che parla con il padre; scene circoscritte a due o tre personaggi. Dall’altra bisogna considerare la consistente parte scenografica, composta anche dalle presenze sceniche di cori numerosi e bande di palcoscenico. L’Aida comprende questi due aspetti insieme, quello intimistico e quello trionfale».

Carlo Palleschi

Carlo Palleschi

Un’opera così complessa, intrisa di questo binomio trionfo/intimità, qual è la parte più complessa da dirigere?

«La parte più complessa è fare la musica, e farla bene – spiega -. La musica si fa più sottile quando deve tratteggiare gli aspetti psicologici ed emotivi. Verdi sa raccontare con un sistema musicale sapientemente costruito. Le faccio un esempio: c’è un momento in cui Aida è costretta dal padre, che le fa violenza psicologica, a tradire l’amante. Lei si trova in fase di grande lacerazione interiore perché da una parte c’è l’uomo che ama, che è però il generale che combatte contro la sua gente, e dall’altra c’è l’amore del padre e il suo popolo. Fra queste due cose c’è un tema, per il quale Verdi fu tacciato di wagnerismo, nel quale si crea un forte tema cromatico che sottende un anelito verso qualcosa che non può raggiungere».

«La musica, in questo caso, è molto più sottile – aggiunge -. Mentre nella marcia trionfale, la presenza di marce e inni non lascia dubbi interpretativi, la grandezza del compositore la troviamo, per esempio, nel finale del secondo atto: inizialmente si ripete il tema della marcia trionfale quando il padre decide di affidare sua figlia Amneris a Radames; lui accetta, spiazzato e costretto ad una promessa davanti al popolo. Qui troviamo da una parte la marcia, dall'altra il tema dei sacerdoti (un altro tema importante che si lega ai giochi di potere e all’influenza del potere decisionale religioso) e poi c'è il tema, il terzo tema, degli amanti che si disperano mentre il tema di Amneris all’interno fa da contrappunto. Verdi li fa sentire: prima uno, poi l’altro, poi l’altro ancora per poi far scoprire che questi tre temi erano congegnati per funzionare contemporaneamente insieme. Un lavoro di ingegneria musicale».

Lei è noto per la conoscenza, a memoria, di oltre cinquanta opere. Qual è il segreto?

«Si studia, si approfondisce, si torna a studiare ancora perché a volte ci sono cose che si dimenticano – racconta il maestro Carlo Palleschi - Può sembrar strano perché si tratta del direttore ma anche i cantanti cantano a memoria. Il ruolo del direttore è indubbiamente concertante, si occupa dell’orchestra ma anche delle voci (solisti e cori), e dei movimenti di scena. Già altri prima di me hanno diretto a memoria, se pensiamo a Toscanini, Karajan ma ci sono anche tanti giovani che lo fanno. Io ho imparato ad esercitare la memoria sin da bambino con il pianoforte, memorizzavo le parti prima di suonarle. Di fatto potremmo dire che la cosa più importante è la padronanza di ciò che si è studiato che permette di interiorizzarlo e produrlo in maniera profonda, mettendoci anche del proprio. Potremmo fare l’esempio di chi studia una poesia a memoria e la ripete in maniera inespressiva e chi la drammatizza. Si dice, a tal proposito dei direttori, che c’è chi ha la partitura in testa e chi ha la testa nella partitura».

Tra le opere nella sua memoria, qual è quella che ama di più?

«Aida – risponde sorridendo -. Come disse una volta Toscanini ad un’intervista “quella che sto facendo in questo momento”.  Scherzi a parte, io sono un verdiano e amo le opere di Verdi. Ma ogni opera è un capolavoro a sé; un po’ come scendere da una Ferrari e salire su una Lamborghini e poi provare una Aston Martin. Ogni volta che ci approccia ad uno di questi gioielli, di queste meraviglie, ci si innamora».

«Sono convinto che nell’opera musicale la musica sia l’aspetto più importante insieme alle voci, forse le voci addirittura più importanti della musica, perché la voce è lo strumento attraverso cui le parole mute del poeta prendono vita; le voci però devono essere adeguate per poter sostenere i volumi dell’orchestra e voci che abbiano il colore giusto per affrontare questi ruoli – aggiunge -. Dopo viene la musica. La parte scenica conta, ma viene dopo. Se ci pensiamo: cos’è La Bohème, cos’è la Carmen, cos’è l’Aida se non la musica che diventa teatro essa stessa? A ragione di questa affermazione le racconto che la mia prima volta con l’Aida è stata ascoltandola da bambino attraverso un disco; ascoltavo i dischi delle opere che mia madre mi comprava. Mi commuovevo quando morivano i personaggi in Aida, Trovatore, in Rigoletto».

«L’effetto di comunicazione emotiva c’è già nella musica; è come leggere un libro nel rapporto diretto tra lettore e storia – spiega -. La dinamica di sviluppo dell’immaginazione è personale, profondamente individuale e si perde quando viene messo in scena perché diventa la rappresentazione di quel regista e non più quella che ho immaginato io. Ora, il repertorio lirico non si è rinnovato, pertanto la scelta di molti registi va verso una innovazione che spesso tradisce l’opera stessa nel tentativo di evitare il “già visto” ed essere originali. Nella regia prevista al teatro di Messina, De Lucia sceglie di attenersi al tradizionale per cercare di fare insieme, cose fatte bene e non strane”, secondo come sono state previste dal compositore e dal librettista».

«Le faccio un esempio: nella musica pura, se devo dirigere la Quinta di Beethoven non penserò di modificarne l’esecuzione in funzione di come l’ha diretta precedentemente Muti ma mi attengo a dirigere ciò che Beethoven ha scritto – continua -. Come già detto, il compositore, nella sua opera perfettamente concepita, ha calcolato tutto, parole, spostamenti di scena, movimenti del personaggio; nella sua mente l’opera è il suo film mentale e per metterla in musica considera i tempi e modi della musica che, per esempio, introducano un messaggero che entrerà in scena e dovrà parlare; tutto è dosato perché funzioni, poi, sulla scena. Analogamente, se parlassi di orologi meccanici, un Omega, e decidessi per mio piacere di togliere due o tre ingranaggi, cosa succederebbe a quell’orologio? I meccanismi teatrali sono congegni fatti con perizia e delicatissimi e bisogna far attenzione a sceglie di intervenire su qualcosa. È già tanto se riusciamo a portare l’opera che Verdi aveva pensato di portare in scena».

«La scelta di “svecchiare” l’opera con regie innovative è il rischio che si corre nel pensare di guardare la Pietà di Michelangelo e pensare che tutto quel marmo bianco non vada più bene; così per renderla contemporanea gli mettiamo dei Rayban, un giubbino di pelle, così come è stato ironizzato più volte il quadro della Gioconda, con delle applicazioni da cellulare – spiega -. Attenzione però a non confondere il comico con l’opera d’arte. Quando raccontiamo Biancaneve, la magia di questa storia è nel luogo della fantasia, nel bosco, con i nani, il principe azzurro; la storia funziona bene così com’è non ha bisogno di essere portata nel Bronx o in un quartiere romano per essere Biancaneve».