Il fisico e divulgatore scientifico Massimo Temporelli risponde agli interrogativi sul futuro nel nuovo incontro dei "Supertalks!", portando la sua visione alla Scuola Superiore di Catania
Questa volta, sul palco del glorioso Teatro Sangiorgi, è salito Massimo Temporelli, fisico e divulgatore scientifico da oltre venticinque anni, instancabile promotore della cultura scientifica, tecnologica e dell’innovazione attraverso università, musei, media, editoria, imprese e FabLab. Il sesto appuntamento dei Supertalks! promossi dalla Scuola Superiore di Catania, tenutosi giovedì 18 dicembre, è stato infatti dedicato al tema Umani e macchine.
Punto di riferimento nel panorama dell’innovazione italiana, Temporelli ha raccolto gli stimoli offerti dal sovrintendente del Teatro Massimo Bellini, Giovanni Cultrera di Montesano — che ha sottolineato il valore di un utilizzo sempre più aperto degli spazi artistici, non limitato alle sole rappresentazioni teatrali o musicali — e dalla giurista Ida Nicotra, presidente della Scuola Superiore di Catania, istituzione che fa della contaminazione tra discipline umanistiche e Stem uno dei cardini della propria offerta formativa. Da questi spunti è nata una narrazione coinvolgente sulle relazioni tra l’uomo e il mondo che lo circonda, a partire dalle origini della tecnica: dalla scoperta del fuoco all’invenzione della selce, al tempo stesso strumento prezioso e arma micidiale.
«Cammino quando penso e penso quando cammino», scherza Temporelli, “impossessandosi” del palco. «Sono un neo-peripatetico». Fisico di formazione, ma non di professione, rivendica una vocazione dichiaratamente trasversale: «Mi piace muovermi orizzontalmente tra i campi del sapere, anche a costo di qualche passo goffo». Filosofia, comunicazione, design, scrittura: territori che attraversa con curiosità, mentre — confessa — sta imparando ora a suonare la chitarra. «Un tempo mi avrebbero definito eclettico, oggi si direbbe multipotenziale. Non sono verticale: la verticalità appartiene al ricercatore, al palombaro. Io mi sento più uno snorkeler, come tutti quelli che esplorano in orizzontale».
La domanda di partenza, ispirata soprattutto dagli studenti e dalle studentesse in sala, è una di quelle che inquietano il nostro presente: l’intelligenza artificiale arriverà a superare l’essere umano? E, soprattutto, dobbiamo temerne l’avvento? La risposta, chiara e priva di ambiguità, arriva quasi in chiusura del suo intervento, sotto forma di una riformulazione decisiva: «Il problema non è se useremo queste macchine, né quando. La vera questione è come le useremo».
«Le macchine sono già più brave di noi a fare moltissime cose. Tantissime», premette. «Se ci fermassimo qui, potremmo pensare che gli esseri umani siano già spacciati». È naturale, riconosce, sentirsi spiazzati e impauriti da una rivoluzione di questa portata. Eppure resta uno spazio decisivo di responsabilità umana: la capacità di immaginare, di comprendere il funzionamento delle macchine che lavoreranno al nostro posto, di attribuire senso alle operazioni che compiono e di verificarne gli esiti. «È questo che ci mantiene ancora un passo sopra».
Non saremo spacciati, dunque, ma saremo diversi. E dovremo prepararci al cambiamento. «Gli animali restano sempre uguali a sé stessi: la carovana della natura procede lentamente. Le trasformazioni culturali umane, invece, corrono». Per questo, avverte Temporelli, non saremo più gli stessi tra qualche anno. Del resto, da quando l’uomo preistorico ha afferrato una selce appuntita o ha inventato l’agricoltura — da quando, cioè, la biologia ha incontrato la tecnologia — l’essere umano è diventato irreversibilmente il prodotto della propria relazione con una “macchina”. È così che è diventato Sapiens: non in un rapporto semplicemente strumentale, ma profondamente, letteralmente simbiotico.
Non c’è dunque motivo di allarmarsi oltre misura. Né, d’altra parte, di arroccarsi in un conservatorismo rigido o di abbracciare l’innovazione in modo acritico. L’idea che la tecnologia disumanizzi è fuorviante: ogni invenzione, nel corso della storia, ha trasformato il nostro modo di pensare noi stessi e di stare nel mondo. Abitudini, consuetudini e professioni sono destinate a scomparire, ma il percorso non si interrompe: continuerà anche con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa. Le crisi, piuttosto, vanno lette come occasioni per ridisegnare il sistema e compiere un salto di livello, facendo leva su ciò che abbiamo già conquistato e sulla nostra innata spinta verso l’esplorazione.

In foto da sinistra Ida Nicotra e Massimo Temporelli
Il rapporto tra uomini e macchine ci affascina e alimenta grandi aspettative – gli chiediamo, per approfondire alcuni dei punti del suo ‘speech’ -: è sufficiente immaginare a cosa potremmo fare già tra sei mesi con i nostri telefoni o i nostri computer. Allo stesso tempo, però, questo rapporto può anche farci paura. È così?
Il nostro rapporto con la tecnologia è senza dubbio complesso. Basta pensare a come un aereo, un’invenzione del Novecento, o anche un semplice paio di occhiali amplifichino enormemente le nostre capacità e le nostre possibilità. Dopo i cinquant’anni ho iniziato a non riuscire più a mettere a fuoco le parole sui libri: immagini cosa sarebbe la mia vita senza questa “macchina” fatta di una montatura e di due lenti.
Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Le macchine potenziano le nostre capacità, ma amplificano anche i nostri difetti. Sono, in un certo senso, una lente che ingigantisce tutto: se una persona è egocentrica, i social diventano il luogo ideale per alimentare il bisogno di visibilità e di presenza. Questo, entro certi limiti, è comprensibile: tutti, chi più chi meno, abbiamo il desiderio di esporci, e la tecnologia ce ne offre la possibilità. Ma quando questa esposizione diventa continua, a qualsiasi ora del giorno, allora emerge qualcosa di profondamente distorto.
A proposito di distorsioni, l’IA rimane uno strumento o rischia di diventare una dipendenza?
Oggi, grazie all’intelligenza artificiale, possiamo generare immagini e testi con estrema facilità. È qualcosa che, in fondo, abbiamo sempre desiderato fare, ma che solo ora è diventato realmente possibile grazie alle tecnologie. La vera domanda, però, è un’altra: c’è davvero bisogno di pubblicare l’ennesimo ‘post’ generato da una macchina, risparmiando tempo, invece di prendersi un’ora, una settimana, per riflettere su ciò che si vuole dire e scrivere poi una frase autentica, sentita, propria?
Da un lato, dunque, l’Homo sapiens — la nostra specie — viene esaltato e potenziato dalla tecnologia, che ci consente di superare limiti imposti dalla natura. Dall’altro lato, però, questi stessi strumenti sollevano interrogativi profondi. Pensiamo al nucleare, alla stessa intelligenza artificiale, o alla ricerca sulla longevità, che potrebbe permetterci di vivere fino a duecento anni: forse già nel prossimo secolo, o addirittura entro la fine di questo, se il trend attuale dovesse continuare. La questione centrale, allora, non è se sia possibile farlo, ma se abbia davvero senso.

Un momento del talk di Massimo Temporelli
E secondo lei ha senso?
La tecnologia non deve guidarci a prescindere. È naturale e giusto che modifichi il nostro modo di pensare, ma non può stravolgere la nostra natura. Questo è un giudizio più filosofico che scientifico: servirebbe un compromesso affinché l’evoluzione della specie non sia violenta nei suoi modi di esistere. Il problema è che, storicamente, questo non accade. Non è mai successo che l’umanità si sia seduta attorno a un tavolo per decidere come usare una tecnologia: dal fuoco al nucleare, dall’elettricità all’intelligenza artificiale, prima produciamo danni — grandi o piccoli — e poi cerchiamo di rimediare.
Oggi in Europa esiste l’AI Act che prova a contenere gli abusi e a dare linee guida su un utilizzo sostenibile, ma vediamo quanto sia difficile: le persone usano comunque queste tecnologie a scuola, al lavoro, spostano dati, aggirano i limiti. Non è il controllo che ci rende umani. Forse sarebbe il caso di coinvolgere in queste discussioni non solo fisici, ingegneri e ricercatori, ma anche i filosofi, non come oppositori, bensì come alleati della comunità scientifica e delle aziende tecnologiche, per rendere il cambiamento più sensato.
Ma forse un modo davvero “sensato” non esiste: continuiamo a procedere per tentativi ed errori e, finora, ci è andata bene. Viviamo più a lungo, siamo più istruiti, mangiamo e dormiamo meglio, viaggiamo e leggiamo di più. Non c’è una legge che possa dirci come farlo nel modo giusto. Ci muoviamo in modo disordinato, spesso perdendo l’equilibrio, ma proprio in quello smarrimento risiede la nostra umanità.

In foto da sinistra Massimo Temporelli, Ida Nicotra e Giovanni Cultrera di Montesano
In quest’ottica, il suo talk è improntato più al pessimismo o all’ottimismo?
Io la vedo come una dinamica complessivamente positiva, pur senza dimenticare che qualcuno ne paga le conseguenze più di altri. All'inizio, le nuove tecnologie sono appannaggio di un’élite: costano molto e sono riservate a pochi privilegiati. Questo crea un'ingiustizia evidente, perché chi è già ricco le usa per correre ancora più veloce, aumentando il distacco da chi è rimasto indietro. È successo con i primi cellulari e con internet: chi è arrivato prima ha accumulato enormi fortune.
Tuttavia, con il passare degli anni, accade qualcosa di positivo: la tecnologia diventa per tutti, si democratizza. Non succede per generosità, ma perché alle aziende conviene vendere i propri prodotti a milioni di persone anziché a poche decine. È un percorso che abbiamo già visto con le auto, l'elettricità e i viaggi in aereo: nati come lussi per pochissimi, oggi sono diventati strumenti quotidiani che migliorano la vita di ognuno di noi.
Per questo non posso parlarne solo in negativo: è il modo in cui siamo evoluti, e a questa evoluzione va riconosciuto rispetto.
Secondo il suo ragionamento, quindi, parlare male della tecnologia equivale a parlare male degli esseri umani?
Essere negativi nei confronti della tecnologia significa, in fondo, essere negativi nei confronti dell’essere umano. A volte verrebbe anche da farlo, ma la nostra natura è questa: siamo ciò che siamo, e non ha senso dire che dovremmo essere diversi. È come pretendere che una tartaruga vada più veloce. Noi siamo in relazione con la tecnologia e, attraverso questa relazione, cambiamo. Non si tratta di un cambiamento delicato o armonioso: spesso è un cambiamento rivoluzionario. Di questo prendo atto e lo rispetto, cercando di individuare gli aspetti positivi che emergono da questa dinamica.