Dal dolore alla rinascita. La forza di ricominciare

Gabriele Parpiglia si è raccontato nel libro “Sotto attacco di panico” presentato alla libreria Feltrinelli

«Non ho scritto un libro per guarire gli altri. Ho raccontato la mia storia per far capire che non siamo soli. Spero che chi lo legga possa riconoscersi e trovare il coraggio di chiedere aiuto». Gabriele Parpiglia, giornalista e autore, ha concluso con queste parole, nei locali della libreria Feltrinelli di Catania, la presentazione del suo ultimo libro dal titolo “Sotto attacco di panico. La mia storia, il mio burnout, la mia ripartenza”.

Un evento partecipato e denso di emozioni che ha visto l’autore esporsi con coraggio, parlando senza filtri di attacchi di panico, terapia, burnout e delle ombre che possono annidarsi anche dietro i riflettori del mondo dello spettacolo. Il libro, il suo terzo personale, dopo una lunga carriera come ghostwriter per personaggi pubblici, è nato, non da un progetto editoriale preconfezionato, ma da un’urgenza personale e sociale. «Avevo toccato il fondo», ha raccontato Parpiglia, «e quando sei giù, puoi scegliere: restare lì o provare a risalire».

Parpiglia racconta con lucidità e ironia uno dei due momenti chiave che l’hanno portato alla scrittura del libro. «Avevo appena preso l’aereo per Napoli, al telefono, distratto, ho ingerito quello che credevo essere un farmaco per l’ansia; in realtà era acido per le verruche. L’avevo messo io stesso in una boccetta simile a quella del Depakin. Mi si sono chiuse le tonsille, la voce si è spezzata, la pelle si è coperta di macchie. Pensavo: questa volta è finita», racconta l'autore in dialogo con Vittoria Marletta, giornalista e speaker radiofonica.

Ricoverato d’urgenza, i medici riuscirono a salvarlo; avrebbe potuto perdere le corde vocali, l’esofago, la vita. Eppure, da quella notte per certi versi tragicomica, è nato qualcosa. «La prima cosa che ho fatto quando mi sono ripreso? Ho prenotato il mio primo viaggio a New York. Non avevo mai preso un volo intercontinentale, non avevo nemmeno il passaporto in regola. Ma ho capito che era il momento di vivere per davvero», aggiunge l’autore del libro.

Quella decisione, istintiva e radicale, è uno degli snodi fondamentali che lo porteranno alla stesura del libro. L’altro, più silenzioso e devastante, è la perdita di Maurizio Costanzo, il suo mentore, amico e punto di riferimento per oltre dieci anni. «Ci eravamo conosciuti in radio, e da lì non ci siamo più lasciati – spiega senza nascondere le proprie emozioni -. Quando ho ricevuto la notizia della sua morte ero a pranzo, ricordo che mi sono caduti gli gnocchi dal piatto, come fossi un bambino. Non riuscivo a crederci. Solo ai funerali ho realizzato il vuoto».

Quella perdita, «il lutto più grande della mia vita», segna una discesa consapevole nel buio; Parpiglia racconta di aver spento il telefono per dieci giorni, di essersi rifugiato a Ibiza, insieme a un suo vecchio gruppo di amici, per autodistruggersi. «Non volevo reagire, non volevo rimettermi in piedi. Quando perdi il tuo faro, ti senti senza direzione», precisa.

Un momento dell'intervento di Gabriele Parpiglia

Un momento dell'intervento di Gabriele Parpiglia

E racconta, inoltre, anche un episodio emblematico del suo percorso con Costanzo: l’intervista a Pietro Maso, il giovane che uccise la sua famiglia e divenne un caso mediatico. «Avevamo ottenuto il 23% di share, lui si era messo a piangere, sembrava sincero. Pensavamo di aver fatto qualcosa di importante», ha detto l’autore del libro.

Ma Costanzo, uscendo dallo studio, gelò tutti: “Non vi siete accorti che non ha mai chiesto perdono. Siete degli incapaci”. «Una lezione che non ho mai dimenticato», racconta a distanza di anni Gabriele Parpiglia evidenziando il ruolo di Maurizio Costanzo nella sua crescita formativa.

Nel suo racconto, lo scrittore ricorda anche un altro maestro di vita: Adriano Galliani, storico dirigente sportivo del Milan. «Un giorno allo stadio apparve uno striscione offensivo nei suoi confronti. Lui rimase impassibile, e io ne fui colpito. A quel punto chiesi a Gallini di reagire», ha raccontato Parpiglia. Ma Galliani, serafico, rispose: “Perché non stavano parlando di me. Parpiglia, quando la offenderanno, impari a guardarsi dall’esterno. Se si rivede in ciò che dicono, allora ha un problema. Se non si rivede, lasci perdere”.

Un consiglio apparentemente semplice, ma che l’autore del libro definisce «fondamentale per imparare a difendersi dal giudizio esterno e dagli haters».

E da lì, anche da questi episodi, Parpiglia mette in conto a risalire. «Risalire, in questo caso, per me significa scrivere, ma non è stato semplice. Il primo tentativo di raccontare la propria sofferenza, infatti, è stato rifiutato da un editore che ha descritto la bozza come “troppo rabbiosa, troppo personale” – racconta -. Avevano ragione. Quel libro era pieno di rancore, di accuse. Non era terapeutico. Era uno sfogo. Così l’ho riscritto. Non per sembrare migliore, ma per raccontare la verità». Il risultato è un testo che parla con sincerità degli attacchi di panico, del senso di vuoto, dell’isolamento, ma anche della possibilità di guarigione parziale, graduale, faticosa.

Parpiglia dichiara di essere sorpreso del successo del libro: «Non ho preso anticipo, non mi aspettavo che avrei girato tutta l’Italia né che il libro andasse in ristampa. Non avevo previsto nulla di tutto questo. È arrivato, e basta».

L’autore per tutto l’incontro ha insistito molto su un concetto che purtroppo porta incoscientemente a categorizzare la salute mentale, e in particolare gli attacchi di panico, come “meno importante” rispetto alle atre branche della salute.

«Non è come rompersi una gamba – ha sottolineato -. Nessuno vede niente, ma dentro ti esplode tutto; il cuore batte all’impazzata, la mente corre, il corpo si blocca e nessuno capisce». Grazie a questo libro adesso Parpiglia riceve ogni giorno centinaia di messaggi da parte di persone che si ritrovano nel suo racconto, che decidono di chiedere aiuto per la prima volta.

«La cosa che mi ha colpito è che molti si confidano più facilmente con uno sconosciuto che con le persone vicine. Perché? Perché manca la cultura dell’ascolto, manca l’educazione alla salute mentale», spiega.

Un momento dell'intervento di Gabriele Parpiglia

Un momento dell'intervento di Gabriele Parpiglia

Da qui nasce la sua proposta. «Sostituire l’ora di religione nelle scuole, parole che lui stesso definisce “provocatorie, dette da credente”, con un’ora di educazione psicologica. Non cambieremo il mondo. Ma se salviamo anche solo una vita, abbiamo già vinto», sottolinea.

La frase ha colpito tutti i presenti in sala: l’idea che la prevenzione possa partire da un diario, da un professore attento, da uno psicologo scolastico, appare, infatti, rivoluzionaria nella sua semplicità.

Secondo Parpiglia «si potrebbero evitare tante tragedie se ci fosse qualcuno capace di cogliere i segnali giusti». «Nel diario di Giulia Cecchettin era scritto tutto. Bastava che qualcuno lo leggesse. E invece continuiamo a ignorare», ha detto.

L’altro pilastro del suo percorso terapeutico è l’Emdr, una tecnica psicologica nata per elaborare i traumi. Parpiglia la descrive con una metafora efficace: «Cammini sulla sabbia, poi incontri dei sassi, poi degli scogli. Così facendo ti abitui al dolore e continui a camminare. L’Emdr ti riporta sulla sabbia. Ti ricorda cosa significa stare bene». «Per tre anni e mezzo ha affrontato questo percorso, tra pianti e sedute - ha affermato -. Non si guarisce mai del tutto, ma oggi sto meglio e non prendo più farmaci, non perché sia forte, ma perché ho imparato ad ascoltarmi».

Centrale è anche il suo rapporto con il mondo del giornalismo. «Il mio sogno sin da bambino era quello di diventare giornalista e sapevo che sarei riuscito a realizzarlo – spiega -. I miei amici compravano riviste o videogiochi, io la macchina da scrivere. Sapevo che sarei diventato giornalista».

Al tempo stesso il giornalismo è spesso responsabile, secondo lui, di «logiche tossiche». Ha raccontato episodi di bullismo lavorativo, la difficoltà di dire “no”, la delusione verso chi promette «siamo una famiglia» e poi ti abbandona. «Mi tatuerei quella frase, “siamo una famiglia”, per ricordarmi che spesso è il segnale di una fregatura. Ci ho creduto troppo, ho sbagliato», spiega Parpiglia accennando velatamente ai retroscena del «mondo dello spettacolo spesso opportunista».

Il momento più toccante arriva quando l’autore del libro parla degli effetti della rete. «Il web ha un potere distruttivo enorme – racconta -. Le parole uccidono. Lo abbiamo visto anche di recente, con casi di ragazzi che si sono tolti la vita dopo ondate di odio».

Un fenomeno che, secondo lo scrittore, è legato a doppio filo con il panico, la depressione, il burnout. «E serve educazione. Serve parlarne. Sempre», spiega. Il pubblico ha ascoltato in silenzio con emozione, alla fine, è scattato l’applauso. Tra le domande dei presenti, ne colpisce una: se questo libro possa essere visto come “guaritore”. La risposta di Parpiglia è netta: «No. Non moltiplica pani e pesci. Ma può essere una compagnia. Può aiutare a sentirsi meno soli».

Ed è proprio questa la forza del suo racconto: la fragilità che diventa possibilità, il dolore che si fa parola, la vergogna che si trasforma in voce.

Hanno collaborato Maria Angelica Frasca, Calogero Genco, Martina Giuffrida, Claudia Iacopinelli, Giuseppe Rasconà e Marta Maria Robusto

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