Dell’Africa immaginaria e largamente fraintesa

Il racconto di Alessandro De Filippo, docente di Cinema, fotografia e televisione al Dipartimento di Scienze umanistiche di Unict

Alessandro De Filippo
Villaggio rurale
Il mulino per macina di manioca e mais
Lavaggio dei panni al fiume

Qualche volta ti accorgi che hai gli occhiali sporchi, perché c’è come una nebbia che confonde i contorni delle cose intorno a te. Li togli, prendi la pezzetta dalla custodia oppure utilizzi il bordo della maglietta di cotone e provi a pulirli. Quando li inforchi nuovamente è tutto diverso, nitido, tagliente. Sembra quasi che anche le idee in testa siano più chiare.

Per me la fotografia è questa cosa qui. Pulire gli occhiali della mia coscienza, fare chiarezza nella mia testa, spolverare gli angoli dal pulviscolo dei pensieri che distraggono e confondono.

E per questo può essere un medium che aiuta a fare ricerca. La scrittura, che è lo strumento preponderante della ricerca scientifica, è per sua natura analitica. La fotografia, invece, è sintetica.

In quel fulmineo triangolo artigianale da chiudere frettolosamente, tra Iso, tempo e diaframma, c’è un gesto rapace, che si appropria di una porzione di tempo e di spazio e la fissa su un supporto fragile, effimero, sdrucciolevole.

Una donna rientra a casa dalla campagna

Una donna rientra a casa dalla campagna

Sono andato in Africa con un fardello di pregiudizi in testa. Ma forse non è «fardello», la parola giusta. Perché tutti quei pregiudizi non erano solo un cumulo pesante, erano figli del mercato culturale, svenduti per pochi spiccioli, pregiudizi poveri e indecenti. Non un fardello, allora, ma un bordello.

Perché tutti si arrogano il diritto di raccontare l’Africa, di parlarne o di strappare qualche trofeo per i social. Un’immagine automatica con l’iPhone o una storia figa su Instagram. Tutti raccolgono la propria conchiglia sulla spiaggia del resort e fingono di credere che quel souvenir rubato sia qualcosa di simile a un’esperienza.

La parola «safari», in lingua swahili, vuol dire «viaggio». Cosa ne abbiamo fatto noi occidentali? Prima era la caccia agli animali selvaggi per portare a casa i denti di leone, il corno del rinoceronte o le zanne dell’elefante.

Il villaggio di Kimbulu

Il villaggio di Kimbulu

Poi, nell’epoca del politicamente corretto, sono state le immagini e le riprese audiovisive. Sempre trofei di caccia, comunque.

Il viaggio è rimasto funzionale all’appropriazione, allo spoglio, alla depredazione. Perché manca l’incontro con l’Altro, manca la paura dell’incontro, il disagio dell’incontro.

Con il mio carico turpe di pregiudizi sono andato per la prima volta in Congo nel 2018, per le elezioni presidenziali del dopo-Kabila figlio.

Al seggio elettorale di Bunyatenge, nel Nord Kivu, c’erano i ribelli Nduma che si occupavano della sicurezza del voto.

Piccoli criminali, armati di kalashnikov o di lanciarazzi, che presidiavano i seggi elettorali e impedivano – a dire loro – scontri armati. Era forse democrazia?

seggio elettorale di Bunyatenge

Seggio elettorale di Bunyatenge

La mia voce scandalosa del pregiudizio mi urlava nelle orecchie di no. Eppure era una prova fragile di democrazia anche quella.

I giochi politici segnarono l’elezione del governo di Félix Tshisekedi, un opportunista che ha promesso il cambiamento e lo ha tradito di lì a poco, come chi lo aveva preceduto.

Oggi è al secondo mandato, protetto da Russia e Cina in funzione anti-statunitense.

Perché Stati Uniti e Gran Bretagna sostengono il suo arcinemico, Paul Kagame, Presidente autocrate del Rwanda dal 2000, disposto a vendere il coltan all’Occidente, dopo averlo sottratto al Congo e avergli apposto il timbro «blood-free».

Europa e Stati Uniti fanno finta di crederci, perché hanno disperato bisogno di quel coltan per il mercato della telefonia e dell’elettronica.

bimbo di Muhanga sotto la pioggia

Bimbo di Muhanga sotto la pioggia

Sono tornato in Congo nel 2021 (vai alla petizione), per monitorare con foto e video un progetto importante realizzato dalla Ong Cope - Cooperazione Paesi Emergenti, nata a Catania nel 1983 e molto attiva in Tanzania, Guinea Bissau, Marocco e Tunisia.

Un progetto finanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana che ha visto una serie di interventi sanitari nel piccolo ospedale di Muhanga, 43 chilometri dentro la foresta congolese, e di laboratori di formazione professionale a Kimbulu, nel cuore del martoriato Nord Kivu.

Nonostante 123 gruppi di ribelli armati e uno stillicidio emorragico di una cinquantina di morti ammazzati al mese; nonostante lo sconfinamento e l’occupazione dei terroristi rwandesi M23 intorno alla città di Goma e oggi lungo il parco del Virunga, su fino a Kanyabayonga.

guerrigliero Nduma Bunyatenge

Guerrigliero Nduma Bunyatenge

Nonostante i guerriglieri islamisti Adf, affiliati all’Isis, che fanno a pezzi le persone con il machete nei dintorni di Beni e Butembo; nonostante lo Stato d’Assedio dichiarato dal Fardc, il violentissimo esercito regolare congolese, il Nord Kivu resta uno dei luoghi più importanti per capire le contraddizioni dell’Africa e la sua inintellegibile complessità.

Per capire, forse, bisogna intervistare gli ex-ribelli, che cercano invano un reinserimento nella società. Per capire bisogna stare per settimane o mesi nei villaggi rurali, tra le persone, accompagnare le mamme al mulino, i bambini a scuola, le famiglie tutte nei campi di manioca o di mais.

Esercito regolare FARDC

Esercito regolare Fardc

Per capire bisogna calarsi nel fango di quei buchi che chiamano miniere d’oro, alla ricerca di pagliuzze, coi piedi e le mani piagate dalla febbrile e ossessiva ricerca di cambiare vita.

Un sogno di Europa o di Stati Uniti, favoleggiato la sera davanti a una birra Tembo (elefante) oppure una Simba (leone), davanti a un magazzino illuminato da un flebile neon azzurrino, che sul muro vede affisso un cartello esplicito: «vietato portare kalashnikov».

Solo lì, il bordello dei pregiudizi può momentaneamente dissolversi, nell’odore di legna bruciata per riscaldare le capanne la sera, nelle urla dei bambini che giocano in un campo da calcio improvvisato, a piedi nudi, utilizzando due rami per segnare le porte di gioco. Ma è solo un momento.

Perché i pregiudizi sono pronti a riaddensarsi con tutta la loro pervicacia al primo articolo di giornale europeo letto sull’aereo, al primo documentario su Netflix o su Arte, al primo talk show politico, tornati in Italia.

 bambini a Kimbulu

Bambini a Kimbulu

In Congo ho deciso di non andare più, perché per i miei standard di sicurezza è troppo pericoloso. Mi è costato dirlo a quelli che nel frattempo erano diventati amici, a Kimbulu, Butembo, Lubero e Muhanga.

Ho deciso di andare altrove e continuare il mio viaggio alla scoperta di me stesso attraverso le crisi degli incontri plurimi con gli Altri.

La nuova destinazione si chiama Benin, dove collaboro con un’altra Ong per cui nutro grande stima.

Si chiama «Anan», che in lingua adja significa «ponte».

Perché è solo di connessioni e occasioni di incontro che abbiamo bisogno, per provare a disgregare, anche se momentaneamente, i pregiudizi che imprigionano i nostri pensieri.

Strada per Benin

Strada per Beni