Il regista è stato tra i protagonisti del festival internazionale del libro a Taormina. In dialogo con Federico Pontigia si è soffermato sull’arte filmica e sull’identità
Il pluripremiato regista e sceneggiatore Paolo Sorrentino è stato ospite del festival internazionale del libro TaoBuk di Taormina. Durante l’incontro con il pubblico, in dialogo con il giornalista del Fatto Quotidiano Federico Pontigia, ha svelato diversi tratti distintivi del suo cinema e le influenze cinematografiche che l’hanno segnato, anticipando alcuni temi del suo nuovo film Parthenope, che arriverà nelle sale il prossimo 24 ottobre.
Federico Pontigia e Paolo Sorrentino durante l’evento
Portare la vita nei film
La protagonista del film Parthenope è una giovane sirenache diventa donna, interpretata da Celeste Dalla Porta. Questa trasformazione rappresenta per il regista napoletano la riflessione su una «biografia non vissuta». Ma l’essere mitologico porta con sé anche dei tratti estremamente umani: èuna bella donna capace di affascinare chiunque, oltre che essere un inno al carattere elettrizzante dell’adolescenza. Il racconto autobiografico, tipico dei film di Sorrentino, si sposta ora quindi verso la cultura e la storia del territorio partenopeo e una protagonista femminile.
Il coinvolgimento personale non si ferma quindi a film come È stata la mano di Dio (2021)in cui viene raccontato in fondo del suo periodo adolescenziale.
In altre opere, avevamo visto il rapporto fra l’autore e alcuni suoi emblematici personaggi. Uno di questi è Titta Di Girolamo, protagonista de Le conseguenze dell’amore, (2004) interpretato da Toni Servillo, protagonista che soffre d’insonnia, problema che affligge anche il regista campano che in occasione del festival ha raccontato che preferisce per questo lavorare di mattina.
Uno dei temi chiave affrontati durante l’incontro ha riguardato il ritratto della borghesia in maniera non retorica, definita dal regista come la sua «paura più grande». Il confronto con le sue esperienze di vita anche qui è stato inevitabile. Quella capacità di visione gli deriva dalla famiglia che, anche se non povera, lo ha immerso in un contesto della vita popolare napoletana, come vediamo nel film È stata la mano di Dio.
Toni Servillo nel ruolo di Titta Di Girolamo in una scena del film
Immaginare il cinema con il cinema
Così come la vita personale costituisce una grande fonte di ispirazione per il regista, anche il cinema lo ha formato molto, in particolare quello degli anni Novanta. Come per esempio La tempesta di Ghiaccio (Ang Lee, 1997), uno dei suoi film preferiti, che parla proprio della borghesia.
«Quando avevo vent’anni – ha ricordato Sorrentino – andavo al cinema tutti i giorni, i registi che mi hanno ispirato di più sono: Jim Jarmusch, Quentin Tarantino, Spike Lee, i fratelli Coen, Martin Scorsese e David Lynch». Di quest’ultimo notiamo in effetto nel cinema sorrentiniano i tratti tendenti al surrealismo e l’onirico, non in chiave oscura e thriller come accade in Strade Perdute (1997), ad esempio, ma con un risvolto spesso più burlesco.
Per citare alcune sequenze, come non ricordare, l’inizio di È stata la mano di Dio in cui vediamo San Gennaro alla fermata dell’autobus o la scena della piscina dei sogni in Youth (2015) dove appare un uomo pingue, dai capelli ricci che dichiara di essere mancino: Diego Armando Maradona.
Diego Armando Maradona con la figlia Dalma
Divi umani e mostruose bellezze
Il fuoriclasse argentino, noto come El pibe de oro, è stato una figura fondamentale per il regista: non è stato semplicemente l’idolo simbolo di felicità e di riscatto come per un’intera generazione di napoletani e non cresciuta ammirando le sue innumerevoli gesta sportive, ma una figura che ha segnato profondamente la sua adolescenza e in generale la sua vita (come si vede anche nel film È stata la mano di Dio).
Come ha dichiarato durante l’incontro, per lui è sempre «complicato» e anche «molto intimo» parlare di Maradona per la dimensione di semi-divinità che gli attribuisce. Questo perché lo riteneva «sia bravo che abile», contraddicendo parzialmente ciò che il regista aveva sottolineato all’inizio dell’incontro su una certa distinzione: «è triste essere bravi e c’è differenza con il diventare abili».
A partire da questa idea di un’umanità divistica rappresentata nel suo cinema, Sorrentino si è però soffermato su una visione diversa della bellezza umana nei suoi film. «La trovo ovunque, mi piace il deforme, quello che a tratti viene considerato disgustoso. Per questo il miracolo della scena neorealista diventa il miracolo dell’osceno», ha detto.
Giacomo Rizzo nel ruolo di Geremia
Dando un’occhiata alla filmografia del regista, il modo di affrontare l’ignoto e ciò che non può essere visibile si distacca dai grandi del neorealismo. È il caso de L’amico di famiglia (2006) in cui il protagonista Geremia detto cuore d’oro interpretato da Giacomo Rizzo, è un usuraio dell’agro pontino che si potrebbe definire disgustoso per diversi motivi: ha un’estetica non curata, svolge il proprio lavoro senza scrupoli per racimolare fino all’ultimo centesimo utile che tiene avidamente risparmiando persino sui pasti e nutrendosi di gianduiotti.
Tuttavia, l’amore che sorrentino ha per i suoi personaggi va oltre la morale, così come accadeva per Scorsese in Goodfellas (1990). Qui i mafiosi non sono di certo mitizzati (semmai l’opposto). Vengono rappresentati in un modo così impeccabile e quasi fiabesco da far entrare lo spettatore nell’ottica di un mondo assolutamente amorale, o moralista al massimo, come quello della mafia.
Geremia, in modo diverso da Henry Hill, è un personaggio deplorevole da quale sorrentino riesce a estrapolare un fascino del disgusto che colpisce lo spettatore attraverso regia e colonna sonora e lo immerge in un mondo in cui persino il protagonista stesso mostra la sua debolezza, facendoci quindi empatizzare con quest’ultimo.
Ray Liotta in una scena del film
Il cinema e la liceità del contemporaneo
Poiché l’osceno è uno dei temi fondanti del suo cinema, Sorrentino ha parlato delpolitically correct, affermando che è consapevole di creare «opere perlomeno insolite» e che non si lamenta di eventuali polemiche della produzione, soprattutto perché ritiene che farlo sia inutile e soprattutto retorico.
Se il rapporto con i produttori può essere formale e per certi versi intricato, quello con gli spettatori per il cineasta è invece molto più diretto e senza filtri.Infatti, con onestà intellettuale, ha affermato che non vi è un unico senso assoluto dei suoi film: «Il film si fa insieme agli spettatori: io fornisco degli elementi, gli spettatori lo completano».
All’inizio dell’incontro, Federico Pontiggia ha letto un passo della prefazione scritta da Mimmo Repetto tratta dal libro Hanno tutti ragione dello stesso regista che recita: «Non sopporto niente e nessuno. Neanche me stesso. Soprattutto me stesso. Solo una cosa sopporto. La sfumatura». Ed è proprio la sfumatura del cinema, della letteratura e della poetica il messaggio centrale emerso dall’incontro con Sorrentino sul palco taorminese.