Francesco Maria Chelli, presidente facente funzioni dell’Istat, è intervenuto al Dipartimento di Economia e Impresa, per presentare i dati relativi al recente rapporto dell'Istituto nazionale di statistica
«Il seminario doveva intitolarsi Povertà e disuguaglianza, ma ho preferito Disuguaglianza e povertà perché fa rima con Miseria e nobiltà, un film in cui si dice che a casa nostra nel caffellatte non ci mettiamo niente, né il caffè né il latte. È una frase che parla di una famiglia in condizioni disperate, è un film divertente ma un po’ amaro». È così che il professor Francesco Maria Chelli, docente di Statistica Economica all’Università Politecnica delle Marche e presidente facente funzioni dell’Istat, ha iniziato il suo intervento durante il seminario organizzato dal Dipartimento di Economia e Impresa dell’ateneo catanese.
Ad introdurlo il prof. Roberto Cellini, direttore del Dei, che ha evidenziato come «il tema della lezione è di grande attualità e rilevante per molti progetti di ricerca scientifica che sono in corso in questo dipartimento», e, inoltre, il docente di Statistica Salvatore Ingrassia.
Nel corso dell’incontro il prof. Francesco Maria Chelli si soffermato sulla situazione italiana rispetto ai temi della povertà e del lavoro.
Nel 2022, a livello globale, si sono accentuate le forti pressioni al rialzo dei prezzi già emerse a fine 2021, a causa del conflitto russo-ucraino che ha determinato un aumento esponenziale soprattutto delle quotazioni delle materie prime energetiche con conseguenze sulle famiglie anche per l’acquisto di beni alimentari. In particolar modo quale è stata l’incidenza nelle regioni italiane e il gap tra Nord e Sud si è ulteriormente ampliato?
«è una domanda un po’ complessa - ha detto sorridendo il docente -, ma andiamo per ordine. La causa dell’aumento della disuguaglianza e della povertà è stata, appunto, l’esplosione dei prezzi dovuta allo scoppio del conflitto, ma dobbiamo specificare che il conto dell’inflazione non lo pagano tutti allo stesso modo: sono le famiglie meno abbienti a pagarne le conseguenze perché l’incremento dei prezzi dei beni è superiore all’incremento dei prezzi dei servizi. Se già si trovavano in una condizione economica svantaggiata e hanno dovuto affrontare un costo maggiore dell’inflazione, è chiaro che questo meccanismo ha comportato un aumento delle disuguaglianze e della povertà», ha detto.
«Le politiche, seppur dolorose, che nel 2023 a livello europeo hanno cercato di frenare l’inflazione alzando il tasso di interesse, sono riuscite a riportare la situazione sotto controllo, permettendoci di avere un tasso al di sotto del famoso 2% - ha continuato -. In più, l’effetto di trascinamento, cioè l’eredità dell’inflazione, che portiamo dal 2023 al 2024 è molto basso».
Un momento dell'intervento del prof. Francesco Maria Chelli
«Ovviamente le politiche sono importanti ma non sono l’unico fattore determinante di questa situazione: è arrivato un nuovo conflitto in Medio Oriente con la conseguente impossibilità di passare dal canale di Suez. Le navi devono fare un giro più lungo e questo porta ad un aumento dei prezzi, di cui sentiamo le conseguenze perché non viviamo in una economia nazionale o regionale, ma viviamo in una economia globalizzata», ha aggiunto.
«Un’altra lente importante per leggere la disuguaglianza e la povertà è quella territoriale; l’effetto della situazione appena descritta è stato peggiore nel Mezzogiorno, cioè il sud e le isole, rispetto al resto di Italia: il 41% delle famiglie povere vive nel Mezzogiorno, dove risiede solo un terzo della popolazione italiana. Gli individui poveri sono circa 2 milioni e mezzo, mentre al Nord dove si concentra più della metà della popolazione italiana, i poveri sono 2 milioni e 298 mila», ha spiegato il professor Chelli.
Nel 2022 il totale di famiglie in condizione di povertà assoluta è passato dal 7,7% dell'anno precedente all' 8,3%, i singoli individui in povertà sono aumentati dello 0,6% rispetto all'anno precedente (9,1%). Quali sono, oltre all'inflazione, gli aspetti che hanno portato ad un aumento così rapido? Secondo le stime, questo dato è destinato a crescere? Come si può arginare?
«Bisogna distinguere i due tipi di povertà: assoluta e relativa. Quella assoluta viene calcolata praticamene solo in Italia e si determina costruendo un paniere di beni e servizi essenziali al di sotto dei quali l’individuo si trova nella condizione di non poter soddisfare i suoi bisogni fondamentali, come quelli educativi, sanitari, abitativi», ha precisato.
«La povertà relativa è invece un concetto diverso e viene stimata e calcolata in tantissimi paesi d’Europa e del mondo: si stabilisce una soglia rispetto ai consumi medi di una famiglia di due persone e se la famiglia non riesce a superarla è in una situazione di povertà relativa, non potendo soddisfare alcuni bisogni.
Non in questo caso parliamo di povertà assoluta, e proprio per misurarla al meglio, l’Istat ha lavorato per tre anni in collaborazione con la Banca di Italia e tante Università e istituzione», ha aggiunto.
«La povertà assoluta, che quindi ci da un quadro completo della situazione, la calcoliamo per regione, per tipologia di famiglia, per fasce di età, per territorio e addirittura per tipologia di luogo in cui si vive: non è la stessa cosa vivere in un piccolo paese, nella corona della città metropolitana o al centro della città – ha precisato il docente -. Cosa viene, dunque, fuori da questi conti? Che la povertà assoluta per i singoli individui è, a livello nazionale, del 9,7% raggiungendo picchi dell’11,3% nelle isole, del 13,3% al sud, con valori più alti rispetto al 7,5% del centro, all’8,8% del nord est e all’8,3% del nord ovest: il sud è svantaggiato rispetto al resto del paese».
L'intervento del prof. Roberto Cellini. In foto anche i docenti Francesco Maria Chelli e Salvatore Ingrassia
«Un altro aspetto da considerare per comprendere la povertà è la bassa dotazione di capitale umano: se la persona di riferimento ha un basso titolo di studio ha maggiore possibilità di essere povero. Man mano che si va avanti con gli studi, il rischio di povertà diminuisce. Questo ci fa capire che la formazione è molto importante, e per questo motivo dovremmo combattere l’abbandono scolastico», ha continuato il presidente dell’Istat.
«Un altro dato importante è la presenza di minori nel nucleo familiare: in Italia nascono meno di 400mila bambini, ed è un problema che l’immigrazione può aiutarci solo ad arginare, senza esserne la soluzione; dobbiamo aiutare i giovani che lo desiderano ad avere dei figli e invece ci ritroviamo in una situazione in cui, con la presenza di figli, il rischio di povertà individuale sale oltre il 9,7% che abbiamo ricordato prima, per raggiungere addirittura il 21% per le coppie con 3 o più minori e il 13% per la famiglia mono genitore», ha spiegato.
«In questo contesto familiare, bisogna comunque tenere presenti altre variabili: il lavoro dei genitori e la loro cittadinanza. I dati cambiano se la persona è disoccupata, in cerca di occupazione, se si tratta di un lavoratore indipendente o dipendente. Se, nella famiglia, è presente uno straniero o se tutti i componenti sono stranieri, il dato sulla povertà cresce - ha precisato il docente -. Per quanto riguarda la crescita di questi dati, sicuramente sappiamo che tra il 2022 e il 2023 sono andati crescendo, ma tranne che per alcuni dati, come quelli sulle statistiche demografiche, l’Istat lascia ad altre istituzioni la realizzazione di queste previsioni».
Vorremmo commentare la notizia secondo cui l’1% della popolazione italiana detiene il 23,9% della ricchezza. Questo divario è destinato ad aumentare? dove è concentrato questo 1% della popolazione?
«Questo è un dato di Oxfam, una importante istituzione internazionale con sede in Svizzera», ha tenuto a sottolineare il professor Chelli.
«I dati relativi a questo divario, fino allo scorso anno, aumentavano – ha aggiunto -. È un aspetto sicuramente preoccupante perché ciò vuol dire che il potere viene concentrato nelle mani di sempre meno individui. Si tratta di un ottimo esempio di disuguaglianza, che studiamo grazie all’indice di Gini, elaborato nel 1914 dal primo presidente dell’Istat, Corrado Gini, per l’appunto. Questo indice viene usato in tutto il mondo per misurare la disuguaglianza tra persone ricche e povere; fino all’anno scorso ho seguito i dati ed è emerso che il numero di persone ricche si riduce sempre di più ma aumenta la ricchezza che detengono. Per l’Italia succede lo stesso, anche se siamo in linea con i paesi sviluppati».
In foto un momento dell'intervento del presidente facente funzioni dell'Istat
Le spese sono aumentate, ma anche i consumi. È dovuto ad una crescita del poter di spesa della popolazione oppure ad una crescita dei prezzi?
«Bisogna distinguere l’aumento in valore da quello in volume. Se per comprare lo stesso volume l’inflazione, e quindi il prezzo, aumenta, vedrò che in valore i consumi sono aumentati. Ma dobbiamo dare sempre la statistica in valore e volume, perché non è detto che se i prezzi sono cresciuti, aumenta anche la quantità. A noi interessa sapere se i cittadini hanno comprato la stessa quantità o se la quantità dei beni comprati è aumentata. In quest’ultimo caso possiamo dire che effettivamente i consumi sono aumentati; se è aumentato il valore dei beni consumati non è detto che il carrello della spesa sia pieno come l’anno precedente, anche se costa di più», ha precisato il prof. Chelli.
Per quanto riguarda l’occupazione giovanile (25-34 anni) risultano occupati nel 2022 quasi 8 giovani su 10 nel Centro-Nord a fronte dei 5 circa nel Mezzogiorno. E in Sicilia, cosa dicono i dati? Quali sono gli aspetti, territoriali, culturali, sociali, che giustificano questi risultati?
«Non abbiamo qui a disposizione il tasso di occupazione specificamente giovanile, ma possiamo guardare i dati sull’occupazione generale, sia maschile che femminile, che comprende tutte le fasce di età», ha detto.
«Il tasso di occupazione è cresciuto in tutt’Italia, raggiungendo il 45,9%. in Sicilia è però di dieci punti più basso, (35,8%), e va da un massimo di 39% nella provincia di Ragusa fino ad un minimo di 33% in provincia di Agrigento, con valori medi del 36% e 37% rispettivamente nelle province di Catania e Messina – ha commentato il prof. Chelli -. Il tasso di disoccupazione in Italia è del 9,2%, mentre in Sicilia raggiunge il 15,6%. Dobbiamo comunque tenere presente che i dati della Sicilia sono aggiornati al 2021, non al 2023, e che oggi a livello nazionale il tasso di occupazione è aumentato, superando i 23 milioni di occupati. Per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile al 2021, in Sicilia, il tasso di occupazione femminile è del 26% rispetto al 38% italiano».