Esperienze di antimafia sociale

Al Monastero dei Benedettini il secondo incontro del ciclo "Dall'analisi del fenomeno mafioso alla cittadinanza attiva" 

Danilo Bilardi

Antimafia sociale. È necessario prima evidenziare il significato effettivo di questa parola. E in questo compito, in apertura dell’incontro dal titolo Esperienze di antimafia sociale, viene in aiuto il coordinatore del seminario Mirko Viola, il quale lo identifica in «una serie di lotte di minoranza che successivamente riescono a diventare di carattere nazionale in seguito alle stragi degli anni ’90».

L’antimafia sociale si muove pari passo con la mafia stessa perdendo di efficacia quando quest’ultima cambia registro, come ai giorni d’oggi in cui la mafia agisce sommersa, in maniera decisamente più silenziosa rispetto ad un tempo.

Un tema che è stato sviscerato nel corso del secondo appuntamento del ciclo Dall'analisi del fenomeno mafioso alla cittadinanza attiva dei Seminari di Ateneo Territorio, ambiente e mafie - In memoria di Giambattista Scidà che si è svolto, nei giorni scorsi, nell'Auditorium del Monastero dei Benedettini.

A prendere la parola per primo è stato Antonio Fisichella del Comitato contro la dispersione scolastica che ha posto in primo piano la problematica mostrandoci come l’antimafia si evolve nel tempo: dalla rottura culturale degli anni ‘50/’60 in cui i sindacalisti veniva uccisi alla luce del sole, agli anni ’90 con la strage di Capaci.

«La mafia dopo le stragi è molto meno civile e più legata alle istituzioni, è un sistema integrante di interazioni tra imprenditori e istituzioni, una mafia che non può essere sconfitta con i processi – ha spiegato Antonio Fisichella -. Qui viene in soccorso l’antimafia sociale, la quale cammina con non poche difficoltà, un esempio lampante è la burocrazia biblica legata alla legge sui beni confiscati del ’96, la quale permette ai locali confiscati alla mafia di venire restituiti allo Stato per poter essere reinvestiti».

«Ci rendiamo conto che qualcosa non torna quando ci vogliono dai dieci ai quindici anni per l’assegnazione dei beni dopo la loro confisca, ovviamente in pessime condizioni per via del tempo passato, ma anche a causa delle attività illecite che hanno continuato a svolgersi nonostante il sequestro», ha aggiunto.

Riguardo alla normativa è intervenuto Carlo Colloca, docente di Sociologia dell’ambiente e del territorio del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania.

«Sono stati investiti ben 300 milioni di euro per circa duecento interventi per i beni confiscati alla mafia dall’Abruzzo in giù – ha spiegato il sociologo -. Sorvolando la scelta delle zone indicate, sperando in una leggerezza piuttosto che qualcosa fatto di proposito, questo investimento è stato congelato nell’agosto dell’anno scorso».

Il tavolo dei relatori dell’incontro nell’Auditorium del Monastero dei Benedettini

Il tavolo dei relatori dell’incontro nell’Auditorium del Monastero dei Benedettini

Il prof. Carlo Colloca, componente dell’Osservatorio Metropolitano per la prevenzione della devianza giovanile, ha ricordato nel suo intervento «come la povertà culturale può facilmente diventare povertà educativa nei minori».

«Questi possono essere deviati da situazioni quali quelle dei quartieri difficili oppure quelle veicolate dai contenuti che fruiscono», ha aggiunto il docente portando come esempi quello della musica, partendo dai videoclip fino ai testi pieni di messaggi estremamente forti come il consumo di droga oppure quanto siano “fighi” i criminali.

«La povertà educativa si accompagna alla dispersione scolastica che qui in Sicilia è la più alta d’Italia, parliamo del 21% di media con il 25-28% nelle zone più difficili rispetto al 12,7% di media dello Stato – ha precisato», ha detto in chiusura Carlo Colloca.

«Risolvere queste situazioni è un processo dall’elevata difficoltà, sia per le interazioni con i ragazzi stessi, sia per le interruzioni da parte delle organizzazioni criminali». Ad illustrare questa realtà è Piero Mancuso, membro dei Briganti di Librino, un’organizzazione che si occupa di offrire opportunità a ragazzi di quartieri difficili.

«Giuseppe Cunzolo era il primo clubhouse dell’organizzazione, dedicato all’omonimo ragazzo morto in seguito ad un incidente stradale dalle dinamiche fittizie, era un punto di ritrovo per i ragazzi, sia per il doposcuola, sia per l’organizzazione delle partite di rugby di cui si occupava l’associazione – ha spiegato -. Una notte è stato incendiato come forma di intimidazione, ci sarebbero anche riusciti se l’organizzazione non avesse avuto supporto da parte dei ragazzi stessi».

A concludere Matteo Iannitti dell’Arci Catania e “Siciliani giovani si è ricollegato alle tesi del prof. Carlo Colloca ponendo l’attenzione dei presenti su «come i bambini delle elementari del Sud Italia partano svantaggiati». «Sono due gli orari disponibili nelle scuole, quello “corto”, dalle 8 alle 13, e quello “lungo”, dalle 8 alle 16 – ha spiegato -. Purtroppo qui in Sicilia le istituzioni spingono per il primo portando i bambini ad avere uno scarto di ore di differenza di addirittura un anno scolastico rispetto ad altre parti dell’Italia».

Incontri che ricordano come la mafia sia silente, ma ancora attiva nelle città siciliane.

Mafia non è solo sparatorie, scippi e atti vandalici. È anche e soprattutto inserimento nella vita sociale e anche istituzionale al fine di assumere potere e soprattutto gestire la cosa pubblica e privata. Vorrebbe agire, in netto contrasto con i principi e i valori della legalità, come un burattinaio che manovra ogni singola cosa a suo piacimento.