Film da leggere: Unict e cinema King per Calvino 100

I pensieri dello scrittore oggi a partire dalla filmografia. Ne hanno parlato studiosi dell’ateneo catanese in un incontro per "festeggiare" i 100 anni dalla nascita dell’intellettuale

Giovanni Greco

Il cinema King di Catania, l’associazione Dolina Miru e il Circolo Città futura hanno onorato nel mese di ottobre il centenario della nascita di Italo Calvino con la presentazione di tre film in collaborazione con studiose e studiosi di cinema del Dipartimento di Scienze umanistiche dell'Università di Catania.

I film selezionati, a eccezione di Palookaville (1995) di Alan Taylor, non sono direttamente collegati allo scrittore e intellettuale nato a L'Avana proprio cento anni fa.

Sugli altri due, l’Eclisse (1961) di Michelangelo Antonioni e Il fantasma della libertà (1974) di Buñuel, l’autore come profondo amante del cinema ci ha lasciato da spettatore e critico pensieri e visioni che ci guidano nella loro lettura ancora oggi.

L’iniziativa - dal titolo Film da leggere - è stata così l’occasione per riportare al cinema alcuni capolavori tutti da ricordare.

Roma, 18 dicembre 1972: Italo Calvino vincitore del Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei per la narrativa (foto Ansa)

Roma, 18 dicembre 1972: Italo Calvino vincitore del Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei per la narrativa (foto Ansa)

Il vuoto delle relazioni moderne

Il primo film della rassegna di Antonioni, presentato il 9 ottobre dalla ricercatrice Simona Busni, è l’esempio perfetto di pellicola troppo poco considerata dalle nuove generazioni che merita, invece, una nuova visione vista l’attualità delle sue tematiche.

Il film, come ha spiegato la docente dell'ateneo catanese, è il terzo capitolo della tetralogia dell’incomunicabilità (iniziata con L’avventura nel 1960, proseguita con La notte del 1961 e conclusa poi nel 1964 con Deserto rosso). 

L’assenza di dialogo non è solamente quella dei protagonisti. Il film vede Piero, uno scoppiettante Alain Delon, nelle vesti di agente al Palazzo della borsa, ambiente in cui il frastuono è una brillante analogia del mondo del post guerra. 

Le difficoltà di comunicare tra le persone non solo per il rumore di sottofondo, ma anche per la mancanza di umanità negli scambi sono dosati in funzione del ruolo e dello status sociale dei personaggi che riflettono elementi storici e universali.  

Come accade per gli appuntamenti tra Piero e la protagonista Vittoria, interpretata da Monica Vitti, che per Calvino è «simbolo per mitologia interiore, personaggio indefinibile e misterioso, specchio di osservazione di una modernità complessa e labirintica».

Vittoria è reduce dalla rottura col suo fidanzato, un architetto di nome Riccardo, mostrata nei primi dieci minuti. Le scene si svolgono negli interni della loro casa borghese e sullo sfondo di un fiorente quartiere dell’Eur di Roma, ripreso attraverso delle ampie inquadrature dal regista, dando un senso di straniamento assoluto dei protagonisti rispetto al mondo esterno, sottolineato anche da Calvino.

Piero sarà solo preso dell’aspetto carnale del rapporto. «È un uomo estremamente materialista - ricorda la prof.ssa Simona Busni - che si disinteressa anche dell’uomo morto nella sua auto rubata poco prima e finita nel fiume rispetto alla possibilità di rimettere in sesto il veicolo». 

Nell’ultimo dialogo del film i due si ripromettono di vedersi la sera, ma Piero non risponderà al telefono, ponendo fine ad una relazione estremamente vuota sentimentalmente. 

«Questa sparizione si traduce nel film in una serie di scene nell’ultima parte in cui i personaggi umani scompaiono del tutto lasciando spazio solo all’ambiente e al silenzio: uno dei finali più spaventosi del cinema secondo la critica», come ha sottolineato la docente di Cinema, fotografia e televisione.

In foto da sinistra le docenti Simona Busni e Stefania Rimini dell'Università di Catania

In foto un momento dell'intervento della prof.ssa Stefania Rimini

«With thanks, admiration and apologies to Calvino»

Questa la frase conclusiva del secondo titolo della rassegna, presentato da Alessandro Di Costa, dottorando di Cinema in Scienze per il patrimonio e la produzione culturale dell'ateneo catanese.

Il film Palookaville (1995) prende spunto da tre racconti calviniani: Furto in una pasticceria (1947), Desiderio in novembre (1949) e L’avventura di un bandito (1949). Alan Taylor si scusa, anche ironicamente, con Calvino per aver utilizzato i suoi racconti in chiave comica, cercando uno stile cinematografico simile a Snatch – Lo strappo, oltre al padre del pulp Tarantino, in cui si mescolano 'noir' e commedia.

«I tre protagonisti Jerry, Russ e Sydney sono il perfetto ritratto dello scansafatiche o dell’uomo inetto destinato a fallire, vincitori loro malgrado», ha ricordato Di Costa. Questi ritratti avvicinano i racconti italiani a questo rifacimento ambientato in una cittadina immaginaria del New Jersey.

Si spiega così il titolo Palookaville che cita una scena della versione originale del film Fronte del Porto (1954), in cui Marlon Brando - manovale un tempo promessa del pugilato - accusa il fratello di averlo fregato con un biglietto di sola andata per Palookaville: ovvero la città dei perdenti

Questo perché il fratello lo aveva convinto a perdere di proposito, come sembrano fare i protagonisti del film di Tylor, un incontro importante per guadagnare soldi con una puntata sull'avversario, mentre lui era convinto di poter vincere e diventare una stella.

la locandina di Palookaville

La locandina del film "Palookaville" di Alan Taylor (1995)

Il gruppo di amici cerca di svoltare economicamente all’inizio del film con la rapina a una pasticceria, che fallisce miseramente. 

In seguito i tre tentano di portare avanti un’attività di taxi abusivi per anziani che attendono il bus davanti a un supermercato. Ma presto capiscono che questo lavoro non è per loro sostenibile e progettano di rapinare un furgone portavalori dello stesso. 

Poco prima in realtà si erano ritrovati a soccorrere l’autista di uno dei furgoni che si era sentito male. Per cui preferiscono riportare indietro il veicolo. L’impresa di rapinarlo davvero, nonostante l’occasione precedente, non va in porto, ma si ritroveranno comunque a raggiungere il successo almeno simbolico più che materiale.

«Il film merita una visione oggi per la capacità di tradire l’originale, ma al tempo stesso omaggiarlo attraverso un adattamento creativo, fruibile da parte di qualsiasi tipo di pubblico», ha sottolineato il dottorando di ricerca Alessandro Di Costa.

Una scena del film "Palookaville" di Alan Taylor (1995)

Una scena del film "Palookaville" di Alan Taylor (1995)

Come far fronte all’assurdo

L’ultimo titolo della rassegna, introdotto dalla prof.ssa Stefania Rimini, ordinario di Storia e critica del cinema al Dipartimento di Scienze umanistiche, è stato Il fantasma della libertà di Luis Buñuel, che gira un racconto a episodi in buona parte slegati narrativamente tra loro.

Con tratti surrealisti e grotteschi, che avvicinano, secondo la studiosa, «la sensibilità dell’artista a quella dello scrittore, vengono mostrati i mille volti degli esseri umani». Raffigurati in tutte le classi e situazioni sociali, i protagonisti del film sembrano non potersi liberare dalle proprie piccole ossessioni e dalla ricerca di strafare anche quando non necessario.

Accade per esempio, in una scena molto ironica e ambigua, che Monica Vitti rimprovera la figlia e la governante poco attenta per aver ricevuto al parco delle foto da uno sconosciuto. Si scopre però che si tratta di semplici foto di monumenti. 

In un’altra sequenza, durante un pranzo in famiglia, con serietà ci si siede su dei water al posto delle sedie attorno al tavolo. Buñuel riassume così simbolicamente, anche senza nessi logici, come sottolineato durante il dibattito, i malfunzionamenti della società moderna, ma lo fa con una leggerezza e un humor che legano il film alle mordaci invenzioni calviniane.