Il valore di etica e morale nelle scienze umanistiche

Intervista a Gabriella Alfieri, presidente della Fondazione Verga, che nei giorni scorsi ha ricevuto il premio speciale "Non omnia possumus omnes" Nicola Zingarelli

Alessandro Di Costa

Gabriella Alfieri, docente di Linguistica italiana all’Università di Catania, presidente della Fondazione Verga e accademica della Crusca, ha ricevuto il premio speciale Non omnia possumus omnes nel corso della XV edizione del Premio letterario Nicola Zingarelli, che si è tenuta a Cerignola nei giorni scorsi. Proprio al filologo e linguista italiano, nato a Cerignola nel 1860, si deve uno dei più autorevoli dizionari della lingua italiana. Un progetto al quale lavoro a partire dal 1912, curandone le pubblicazioni dal 1917 al 1935, anno della sua morte.

Alessandro Di Costa l’ha incontrata per una conversazione sui principi fondamentali nell’insegnamento e nella ricerca linguistica, tra risultati raggiunti e prospettive future.

Il direttivo del Premio Letterario Nazionale Nicola Zingarelli le ha conferito il premio speciale riservato a personalità che si sono distinte per il forte impegno morale ed educativo. Questo prestigioso riconoscimento dà ulteriore lustro al nostro ateneo. Quanto è importante per Lei?

«Questo riconoscimento è stato importante per me, sul piano istituzionale perché accresce prestigio e visibilità della nostra università e sul piano personale proprio per la motivazione: il premio Zingarelli infatti è assegnato per l’impegno etico che mettiamo nella ricerca e nell’insegnamento – spiega la prof.ssa Gabriella Alfieri -. Trovo che sia una motivazione altamente qualificante e per me è stato gratificante riceverlo proprio per questo, perché mi sono sforzata e mi sforzo di svolgere i miei compiti di studiosa e di docente con il massimo scrupolo e con dedizione, rispettando i principi inculcatimi dai miei maestri. Ed è a loro che dedico il premio: Francesco Branciforti, il mio maestro catanese, e Giovanni Nencioni, il mio maestro fiorentino».

In che modo l'etica e la morale influiscono sull’insegnamento, accademico e non, delle discipline umanistiche?

«L’etica e la morale dovrebbero animare l’insegnamento di tutte le discipline, scientifiche e umanistiche: nelle discipline umanistiche si determina una coincidenza tra contenuti e principi etici da trasmettere, perché i messaggi sottesi nelle materie letterarie, storico-filosofiche e filologico-linguistiche implicano innanzitutto una conoscenza storica e poi una conoscenza diretta delle fonti, dei testi sostanziati dalla componente etica – aggiunge la docente –. Le faccio un esempio, che può sembrare banale, ma vuol essere solo immediato e diretto: se spiego la differenza tra norma e regola in linguistica ai miei allievi, inevitabilmente scatterà l’analogia con la norma comportamentale e morale. Anche la prassi adottata nella didattica, nel modo di insegnare e soprattutto nel modo di valutare agli esami, può essere un canale importante per far passare importanti messaggi etici, ad esempio che la furbizia non porta da nessuna parte e che bisogna conquistarsi con onestà i risultati da conseguire».

«Rigore e disponibilità sono le parole chiave del mio agire nella vita professionale. In ogni caso il docente deve saper trasmettere messaggi etici sia esplicitamente nel discorso didattico, sia con il proprio esempio. L’ethos è un valore imprescindibile nel lavoro che facciamo – continua –. E poi, trasmettere la passione per quello che si fa è l’azione più nobile e incisiva che si possa esercitare sui giovani: dimostrare che se si ha una passione autentica è possibile realizzare le proprie aspirazioni più profonde o, come si dice oggi, il proprio “sogno”. In questa direzione, un altro messaggio importante che possiamo trasmettere è l’equilibrio, la capacità di saper conciliare vita lavorativa e vita personale: la passione non deve sbilanciarci sul versante del lavoro, che è un aspetto cruciale, ma non è l’unico della vita. Il lavoro non dev’essere il surrogato della vita personale, o, peggio, il fattore che ci porta a trascurare la vita personale; dev’essere il baricentro su cui basiamo la nostra vita, l’elemento che ci consente di realizzarci appieno e quindi di costruire unsistema di vita equilibrato, in cui si intrecciano e si arricchiscono a vicenda vita professionale, vita affettiva e vita reale».

Il Premio letterario Nicola Zingarelli

Il Premio letterario Nicola Zingarelli

Nella motivazione si legge che lei ha coniugato "l’attività universitaria con quella didattica e scientifica contribuisce a mantenere alto l’interesse per le scienze filologiche, linguistiche, letterarie e storico artistiche per il Meridione d’Italia”. Quanto è stato difficile bilanciare lavoro di ricerca e attività didattica? Sono due strade che procedono parallelamente o possono e devono intersecarsi?

«Saper coniugare ricerca e didattica è uno degli aspetti più complessi del nostro lavoro. Una volta era più facile, era quasi automatico riversare nell’insegnamento universitario i risultati dei propri studi. Nell’ultimo decennio, sia per le ragioni strutturali determinate dalla riforma universitaria, sia per il mutamento epocale nelle modalità cognitive e nel sistema socio-culturale, è arduo poter mantenere un’osmosi tra i due aspetti del nostro lavoro. Si può fare in parte con gli studenti di laurea magistrale e, ovviamente, con i dottorandi. Ancora più arduo è bilanciare le due attività: il lavoro organizzativo e burocratico che ci viene richiesto negli ultimi anni interferisce pesantemente con il nostro lavoro di ricerca, sottraendo tempo ed energie preziose allo studio. Penso soprattutto ai giovani ricercatori, a cui oggi sono richiesti anche impegni didattici e organizzativi che inevitabilmente riducono il tempo e l’energia da dedicare alla ricerca e alle pubblicazioni. La mia generazione è stata più fortunata da questo punto di vista», ci tiene la sottolineare la presidente della Fondazione Verga.

Nel corso della Sua carriera, ha avuto modo di assistere a evoluzioni e mutamenti di paradigma, sia nella ricerca che nell’insegnamento delle discipline filologiche, linguistiche e letterarie. Come ha affrontato queste sfide?

«La scienza per sua stessa natura procede attraverso evoluzioni e mutamenti di paradigmi, e le scienze umanistiche non si discostano da questa dinamica – aggiunge l’accademica della Crusca –. Nel mio caso, la Storia della lingua italiana ha subito negli ultimi decenni un cambiamento radicale di rotta, dalla fase toscano-centrica, limitata allo studio dell’italianizzazione su base fiorentina a partire dai testi letterari, alla fase policentrica, in cui si studia l’evoluzione dell’italofonia in tutte le aree regionali, a partire da documenti non letterari, come inventari notarili, confessioni di presunti stregoni o di presunte streghe, certificati medici. È stata una rivoluzione copernicana, che ha dato accesso allo studio descrittivo delle varietà regionali e parlate di italiano e che sta rivelando l’esistenza di una dimensione sommersa di oralità colloquiale, interferita dalle varietà locali, ma inequivocabilmente tendente all’italiano. Si sta così sfatando una volta per tutte lo stereotipo per cui in Italia fino a metà Novecento si scriveva il toscano letterario ma si parlava esclusivamente in dialetto. Io mi ero formata col paradigma toscano-centrico, ma ho affrontato questa sfida con curiosità e passione e questa svolta, che mi ha fatto aprire alla sociolinguistica e alla storia sociale della lingua, ha apportato un notevole dinamismo ai miei studi».

Un momento della premiazione

Un momento della premiazione

In una società sempre più digitale, in cui nuovi media nascono e proliferano con un ritmo crescente, come si sta evolvendo la lingua?

«Anche quella della società dominata dal digitale è una sfida importante dei nostri tempi, soprattutto per una generazione come la mia, che ha già dovuto confrontarsi con il passaggio epocale alla scrittura al computer e alla ricerca informatizzata sui testi. Io non sono, per natura e per formazione, una misoneista: penso che i nuovi media e, in prospettiva, l’intelligenza artificiale, costituiscano una risorsa importante – continua la prof.ssa Alfieri –. Il problema, ovviamente, è il modo con cui usiamo questi strumenti. Uno dei motti che mio padre, che non esito a definire un “illuminista”, inculcava a me e alle mie sorelle non certo in chiave catechistica, ma per imprimerci valori etici ed esistenziali, era: “Non gli uomini a servizio delle cose, ma le cose a servizio degli uomini”. Può valere per i nuovi media. Il problema è che siamo tutti impreparati a educare i giovani a instaurare un rapporto consapevole ed equilibrato con smart phone, tablet. Basterebbe iniziare con delle regole sui tempi e i modi da dedicare a questi dispositivi, o soprattutto a creare delle alternative per catturare l’attenzione. Ma mentre lo dico, mi rendo conto di quanto sia difficile. Stando al campo che mi compete, la lingua, il problema è lo stesso: è l’uso che si fa di questi mezzi e il rapporto che si instaura con essi».

«L’italiano negli ultimi decenni ha compiuto passi vertiginosi in avanti, raggiungendo le altre lingue di cultura o, per meglio dire, le lingue parlate da società complesse. La varietà che chiamiamo “italiano trasmesso” è condizionata dai mezzi tecnici - dal citofono alla cinepresa, alla videocamera, al telefonino – che lo veicolano, e questo condizionamento si riflette sul modo di formulare i messaggi. È superficiale e banale dire che gli sms stanno ‘corrompendo’ lo stile di scrittura, con abbreviazioni, frasi nominali. Il problema non è questo: il vero problema è che non si insegna a distinguere tra le diverse situazioni e gli usi linguistici che a queste si devono adeguare, e i giovani parlano e scrivono una lingua “adiafasica”, avulsa cioè dai contesti, dal destinatario, dal tipo di testo con cui si devono confrontare di volta in volta», sottolinea la docente dell’ateneo catanese.

«Le faccio un esempio: in una relazione conclusiva di tirocinio, redatta come se fosse una pagina di diario, una studentessa ha scritto che nella struttura in cui aveva operato, le avevano offerto il tè coi biscottini nei freddi pomeriggi invernali – chiarisce l’accademica della Crusca –. Questa incompetenza situazionale si riflette su toni, grammatica, lessico, che gli studenti usano nel parlare e soprattutto nello scrivere. Solo scuola e università possono intervenire in questo senso, e ne hanno competenze e mandato. Le faccio un esempio: in università anglosassoni, australiane, sudafricane e pakistane, hanno fatto una sperimentazione didattica, con corsi di scrittura professionale basati proprio sulla scrittura di sms, da indirizzare a destinatari diversi e in situazioni diverse: i risultati sono stati sorprendenti, perché gli studenti, a partire da microtesti a loro familiari, hanno recepito pienamente contenuti e regole dell’insegnamento proposto e, una volta acquisita l’abilità di scrittura calibrata su situazioni e destinatari diversificati, poi sono passati a testi più complessi. In scuole medie del Piemonte si sono fatti esperimenti di insegnamento del lessico a partire dagli emoticon: gli studenti dovevano tradurre in aggettivi, con sfumature sinonimiche adeguate, le emozioni tramesse dalle “faccine”. Si è così arricchita la loro competenza lessicale e semantica. Come sempre, tutto sta nel trovare la chiave giusta. E soprattutto nell’impegno, anche etico, che si mette nel fare il proprio lavoro».

La prof.ssa Gabriella Alfieri

La prof.ssa Gabriella Alfieri

In tal senso, quali sono le prospettive di ricerca? E quali i Suoi obiettivi futuri? Ci sono progetti che vorrebbe realizzare?

«La ricerca in questa direzione è in costante evoluzione. Si può studiare la lingua trasmessa dal punto di vista sociolinguistico, descrivendone la variazione generazionale, la variazione in base al livello culturale o alla provenienza regionale – spiega la prof.ssa Gabriella Alfieri –. Negli ultimi anni mi sono occupata di lingua della televisione e di scrittura nei nuovi media: ho studiato il fenomeno in un saggio che ho intitolato “Lo stile mutante degli stiliti del web” (che si può scaricare da internet), con allusione agli eremiti bizantini che si appollaiavano su una colonna per meditare, come oggi tutti stiamo appollaiati sugli schermi degli smart phone. La curiosità è una caratteristica che deve distinguere il vero ricercatore: non escludo quindi di tornare sull’argomento in futuro. Attualmente sono impegnata in ricerche  sull’italiano postunitario: sto coordinando un progetto di ricerca nazionale, finanziato dal MUR, che coinvolge studiosi di varie università italiane, per costruire un archivio digitale del “parlato-scritto” postunitario; e con la Fondazione Verga, l’Accademia della Crusca e altre dieci università italiane stiamo realizzando il VIVer, Vocabolario digitale dell’italiano dei veristi, che descriverà l’italiano di Verga e di molti veristi italiani, non solo a partire dalle opere letterarie, ma anche dal giornalismo d’inchiesta, dai testi di critica e poetica e da letteratura epr ragazzi. Ne uscirà uno spaccato inedito della lingua italiana».

Come sta cambiando (e potrà ancora cambiare) la didattica in funzione dei nuovi mezzi di comunicazione?

«Anche nel discorso educativo i nuovi mezzi sono uno strumento che dev’essere al servizio dell’uomo: la pandemia ci ha insegnato che comunicare a distanza può essere funzionale in situazioni di emergenza, salvaguardando il diritto allo studio dei giovani – spiega la docente di Linguistica italiana –. Certamente in tempi normali il rapporto educativo faccia a faccia è insostituibile e più proficuo. Le università telematiche mi lasciano molto perplessa. Il rapporto a distanza può essere tuttora funzionale per attività come il ricevimento o il tutorato, evitando a studenti e studentesse pendolari spostamenti frequenti, ma a lezione trovo che la presenza fisica sia fondamentale. Soprattutto se, come ho sempre fatto, la lezione è un momento interattivo e seminariale e non un’erogazione asettica di nozioni».

Quali consigli sente di dare ai giovani che desiderano intraprendere un percorso di studi nelle scienze linguistiche e letterarie?

«Il messaggio che trasmetto ai giovani, durante la prima lezione di ogni anno accademico, è sempre, volutamente, lo stesso: essere innanzitutto orgogliosi della scelta fatta, perché hanno assecondato la propria passione e perché hanno scelto un corso di studi che, qualsiasi ne sarà lo sbocco (insegnamento, giornalismo, editoria), darà loro una formazione più completa, perché basata su valori e contenuti umanistici – continua –. L’altro messaggio che cerco di comunicare è che devono essere orgogliosi di se stessi e del percorso intrapreso, e non sentirsi sminuiti rispetto ai loro amici e colleghi che hanno scelto corsi di studio di carattere scientifico o tecnologici. Anche il nostro infatti è uno studio scientifico e la bella denominazione del nostro dipartimento lo dimostra: “Scienze umanistiche”. Li invito anche a vivere dentro l’università, a frequentare le biblioteche e gli archivi come nei corsi di studio scientifici si frequentano i laboratori».

Un momento della premiazione

Un momento della premiazione

«Gli anni della vita universitaria sono irripetibili e possono essere tra i più belli della nostra vita: dipende solo da noi. Partecipare, incontrarsi, confrontarsi, con i professori, con i colleghi, andare alle conferenze, anche se non interessano direttamente i nostri studi del momento. Io quando frequentavo l’Università (ho studiato a Firenze) consultavo le bacheche e, anche se studiavo letteratura e storia della lingua, andavo a seguire tutte le conferenze, di storia dell’arte, di estetica, di antropologia. Anche se “perdevo” un pomeriggio di studio, conquistavo nuovi interessi, ricevevo nuovi stimoli, che poi mi fermentavano dentro e mi facevano crescere», racconta la docente.

«Più in generale consiglio agli studenti di non tradire mai se stessi, la propria passione, di perseverare, impegnarsi con tenacia, senza lasciarsi demotivare da sconfitte o frustrazioni, che non mancheranno certo, ma vanno superate, e convertite in occasioni di crescita. Se si ama veramente ciò che si fa e se si crede in se stessi si può arrivare dovunque», aggiunge la prof.ssa Alfieri.

In occasione della XV edizione del Premio Nicola Zingarelli, lei ha ricoperto il ruolo di presidente della giuria. L’edizione ha avuto un ottimo riscontro di pubblico ed è stata definita “assai più pop” dall’Assessore alla cultura del Comune di Cerignola. Desidera fare commenti od osservazioni sui dieci finalisti e sull’evento in generale?

«L’esperienza della consegna del premio a Cerignola è stata toccante, coinvolgente e indimenticabile. Ho trovato un ambiente culturalmente fervido e degli insegnanti motivati e appassionati del proprio lavoro, che spingono gli studenti a scrivere, a esprimersi, a lavorare in gruppo anche a testi di scrittura creativa. Anche l’esperienza nella giuria del premio letterario (narrativa e poesia) è stata bella e arricchente: i testi che ho letto e valutato erano il distillato di esperienze esistenziali a volte sofferte, ma vissute e raccontate senza patetismo, ma anzi con coraggio, dignità e forza. La modalità organizzativa del premio, vivace e immediata, con intervista circolare a me e altri rappresentanti della cultura e della società, tra cui un bravo sacerdote, ha consentito di creare un contatto più diretto col pubblico, composto anche da studenti delle scuole medie, e di trasmettere con semplicità e spero con efficacia messaggi sui temi trattati anche in questa intervista», racconta.

«La cerimonia in cui è stato consegnato il premio è stata una serata molto ben organizzata, in cui si alternavano interventi istituzionali per la premiazione, esecuzioni musicali, rappresentazioni sceniche, e non letture unidirezionali, dei testi di narrativa e poesia premiati – spiega in chiusura –. Una modalità, quest’ultima, che ho molto apprezzato e che rispecchia la modalità che adottiamo alla Fondazione Verga per le letture sceneggiate dei testi verghiani, in cui alterniamo recitazione e commento. Anche questo è un messaggio diretto a colleghi di Scuola e Università: stimolare il contatto coi testi, farli vivere, animarli per suscitare l’amore e l’interesse per la lettura e per stimolare la riflessione autonoma e il pensiero critico nei giovani. Scuola e Università dovrebbero essere un perenne laboratorio interpretativo della realtà e della testualità che ci racconta la nostra storia e la nostra umanità».