“Incidere ferite di parole nel campo della consuetudine”

Traendo spunto dalle parole della poetessa Nelly Sachs, ecco il messaggio di mons. Dario Viganò rivolto alla comunità catanese

Alfio Russo

«Incidere ferite con le parole nei campi della consuetudine vuol dire imparare a distanziarsi dalla retorica del nulla e dalle parole vuote, da quello che qualcuno chiama agenda delle parole e imparare dal silenzio come incidere la storia con parole piene di senso, appunto i campi della consuetudine». Poche parole, ma dense di significato quelle con cui mons. Carlo Viganò, vicecancelliere della Pontificia accademia delle scienze e della Pontificia accademia delle scienze sociali dal 2019, ha aperto la lectio magistralis nell’aula magna del Palazzo centrale dell’Università di Catania.

Un incontro – dal titolo Incidere ferite di parole nel campo della consuetudine, riprendendo un passo della poetessa tedesca, di origini ebraiche, Nelly Sachs, premio Nobel nel 1966 per la Letteratura – inserito nell’ambito del Festival della Comunicazione, giunto alla diciottesima edizione, organizzato da Paolini e Paoline d’Italia con il supporto della Conferenza episcopale italiana e che ha visto Catania ‘capitale’ dell’iniziativa con una serie di appuntamenti, da aprile fino ad oggi (21 maggio) incentrati su vari argomenti accomunati dallo slogan Parlare con il cuore e farlo con mitezza. Un passaggio, quest’ultimo, estratto dal messaggio di papa Francesco per la 57ma giornata mondiale per le comunicazioni sociali.

E mons. Viganò, al quale papa Francesco ha affidato il difficile compito di gestire il settore della comunicazione della Santa Sede, non può che essere l’interlocutore più adatto sul tema. 

«Le parole inserite nella galleria del vento si mescolano con la velocità della comunicazione e dei social e il più delle volte perdono il loro vero significato per il nostro chiacchiericcio e per quell’atrofizzarsi dell’ascolto» ha evidenziato nel suo lungo discorso il presbitero, critico cinematografico e teorico della comunicazione italiano in un’aula magna silenziosa alla presenza del rettore Francesco Priolo, di mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, e Emiliano Abramo, presidente della Comunità di Sant’Egidio. Tra il pubblico, tra gli altri, anche Abdelhafid Kheit, Imam di Catania e presidente della Comunità Islamica in Sicilia.

Carlo Viganò, Francesco Priolo, Emiliano Abramo e Luigi Renna

In foto da sinistra mons. Carlo Viganò, Francesco Priolo, Emiliano Abramo e mons. Luigi Renna

«Il Festival della Comunicazione si è mosso alla ricerca della Parola e delle parole su tematiche sociali, culturali e della comunicazione per creare relazioni, promuovere la cultura del territorio, raccontare il bene – ha spiegato Emiliano Abramo -. L’evento con mons. Dario Viganò recupera una citazione di Nelly Sachs, una poetessa tedesca di origine ebraica fortunatamente sfuggita alle persecuzioni del nazismo, che suggerisce una lettura antropologica dell'uso delle parole e al senso dell'azione profetica della parola stessa».

A far da eco a queste parole anche il rettore Francesco Priolo: «In una società in cui le parole sono spesso violente, prive di approfondimento, frutto di una comunicazione breve e masticata, credo che occorra, riprendendo lo slogan del Festival della Comunicazione, mitezza e cuore e in questo contesto il nostro ateneo, baluardo della cultura in una città come Catania che sta vivendo momenti di difficoltà, riveste un ruolo importante e soprattutto di apertura a tutte le realtà».

E proprio dal messaggio del rettore, l’illustre ospite, mons. Carlo Viganò ha ripreso il suo discorso partendo dal cuore. «Ci tengo a sottolineare la sottile differenza tra parlare col cuore e parlare dal cuore, meglio questa seconda definizione perché il cuore è il luogo cardine dei nostri pensieri e delle nostre azioni - ha detto -. E non a caso è l’invito di papa Francesco: cercare e dire la verità e farlo con carità, quindi parlare dal cuore e farlo con mitezza, con coraggio, con libertà affinchè la nostra comunicazione sia libera, pulita e cordiale e che soprattutto riesca a smontare quella psicosi bellica che si annida nei nostri cuori»

un momento dell'intervento del rettore Francesco Priolo

Un momento dell'intervento del rettore Francesco Priolo

«Per questo dobbiamo essere capaci di prendere le parole, di ascoltarle e comprenderle» ha aggiunto. E riprendendo le Lezioni americane di Italo Calvino si è soffermato sul contesto in cui viviamo, «in cui la capacità di ascolto è atrofizzata, colpita da quella peste del linguaggio che intorpidisce le nostre coscienze».

Un ascolto che a volte necessita del silenzio, un aspetto questo descritto da mons. Viganò riportando i due poli della tensione rappresentati dalla scrittrice Alda Merini e dal gesuita e professore emerito di Esegesi dell'Antico Testamento al Pontificio Istituto Biblico di Roma Pietro Bovati. «Per la Merini dinanzi alle parole, un "rumore fastidioso che distrae dal pensare”, vi è la necessità, il bisogno di silenzio - ha spiegato -. Per Bovati, invece, “il silenzio è un grembo necessario affinchè la parola venga fecondata e diventi vita, quindi parola dal cuore, parole che parlino di verità».

«Parole, così come quelle di Dio, sottolineano più volte i profeti, che purtroppo non sono ascoltate» – ha precisato mons. Viganò - «ma dobbiamo essere chiari: i profeti sono solo messaggeri di Dio, non predicono nulla. L’autorevolezza del profeta è un dono dello Spirito; non si basa su competenze umane, per quanto elevate ed efficaci, ma attinge la forza persuasiva del pronunciamento solo dall’ascolto obbediente della parola di Dio. Lo Spirito parla per mezzo dei profeti, e questi lo ascoltano nel silenzio umile del cuore orante, che vive con autenticità la dimensione contemplativa». 

Un momento dell'intervento di mons. Carlo Viganò

Un momento dell'intervento di mons. Carlo Viganò

«Pertanto la conoscenza, come diceva Pascal, è sempre mossa dalla consapevolezza del comprendere un fenomeno, di riconoscere le cose – ha aggiunto -. E per questo occorrono le parole, perché, come sostiene Massimo Recalcati, con l’esperimento brutale di Federico II, senza parole, senza comunicazione dal cuore, non vi è essenza di vita, e infatti i neonati cresciute dalle balie in silenzio, per capire la lingua fondamentale senza condizionamenti, alla fine muoiono tutti. le parole rappresentano una alleanza della relazione umana fondamentale».

«Purtroppo oggi non riusciamo ad adeguare la conoscenza all’immediatezza del fenomeno perché siamo spinti sempre più a velocizzare la comunicazione con lo sviluppo dei social – ha detto mons. Viganò -. Il risultato? Una parola che si pensa adeguata alla comprensione del fenomeno senza intuire l’eccedenza che riporta alla riflessione e alla ricerca è quella parola che sommata ad altre produce soltanto una pestilenza di chiacchiere». 

«Gestire la comunicazione non è facile perché oggi si gioca sulla velocità e non sul contenuto della notizia possibilmente commentata – ha tenuto a precisare il presbitero -. Oggi si ritiene che la cosa importante sia arrivare prima degli altri, ma in questo modo non andiamo da nessuna parte. E questo è un grande pericolo perché siamo smemorati, anche i processi culturali facciamo fatica a comprenderli perché in questo mondo così iperveloce, non riusciamo a puntare alle cose nuove pensando che siano correttamente dette. Ci fanno dimenticare ciò che è stato e questo è un peccato».

Un momento dell'intervento di mons. Carlo Viganò

Un momento dell'intervento di mons. Carlo Viganò

Un passaggio che mons. Viganò, autore di numerosi articoli sul rapporto tra il cinema e il mondo cattolico, ha precisato prendendo spunto dal tragico evento della tragedia di Cutro e una scena del film il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini.

«Pasolini ha girato a Cutro la scena in cui Gesù cammina sulla battigia, quella stessa spiaggia della tragedia.  Sarebbe stato interessante che qualche editorialista, anziché esprimere il suo pensiero, avesse fatto un ragionamento capace di rievocare qualcosa – ha spiegato -. Cosa voglio dire? Quel camminare sulla spiaggia lascia delle orme, un segno, ovvero poter vedere il mio dopo, la storia un attimo dopo che l’ho visitata. Leggere Cutro dentro la provocazione di Pasolini dà la possibilità di letture diverse da quelle consumate dalla polemiche della politica. Si tratta di qualcosa in più, di altro respiro. Le parole vuote non lasciano il segno, quelle vere che escono dal cardine del cuore sono testimoni di umanità. Ecco le gallerie del vento nascono per la velocità dell’informazione, ma sono vuote».

In chiusura, il tema della violenza delle parole. «Siamo vittime di parole violente che a volte non sono direttamente violente – ha puntualizzato immediatamente mons. Viganò -. A volte basta instillare il dubbio su una persona, in questo modo si dà il via ad un lento e progressivo omicidio. Le parole violente, invece, fanno un altro effetto perché di solito sono i cretini a dirle. Ecco la raffinatezza del male non è quando si presenta come un evidente male, ma quando il male si presenta come un bene facilmente raggiungibile, quasi il consiglio che un amico ti dà rispetto ad una terza persona». 

«Purtroppo tutto ciò nasce da un cuore malato – ha detto a conclusione del suo intervento -. Quando un cuore non si è sentito amato non sa amare. Il peccato più grave di un cuore così è l’invidia. E l’invidia è desiderare ciò che ha un altro, ma è desiderare che l’altro non abbia ciò che io non ho. L’invidia è sempre distruttiva».