Riccardo Chiaradonna, ordinario di Filosofia antica all’Università di Roma Tre, è intervenuto in occasione del ciclo di seminari de ‘I lunedì del classico’ al Dipartimento di Scienze umanistiche
Se è vero che oggigiorno i computer e i sistemi di Intelligenza Artificiale riescono a processare un ingente quantità d’informazioni in pochi millesimi di secondi, sostituendo quasi del tutto la figura umana, da sempre l’umanità si è rivolta a sistemi artificiali che potessero essere d’ausilio nei lavori manuali.
Sin dall’antichità, infatti, i primi pensatori e filosofi hanno definito il naturale attraverso un continuo confronto con l’artificiale, e si sono interrogati sulle peculiarità della mente umana nel suo rapporto con la tecnica. In questo senso, è bene considerare l’intelligenza come la più alta espressione della natura umana: la capacità di ragionare, apprendere, contemplare l'ordine misterioso del cosmo sono solo alcune delle sue infinite declinazioni.
Durante il quarto ciclo de I lunedì del classico. La storia non si processa sono intervenuti sull’argomento Riccardo Chiaradonna, ordinario dell’Università di Roma Tre, attento studioso del pensiero tardoantico e neoplatonico, e Giovanna R. Giardina, ordinaria di filosofia antica all’Università di Catania.
Studiare le forme di pensiero proprie del mondo antico risulta essere una conditio sine qua non per comprendere il presente – e, di conseguenza, il futuro – non per un mero interesse antiquario o accademico, bensì per ragioni estremamente attuali. In particolare, è ancora più necessario «declinare il tema dell’Intelligenza Artificiale a partire dall’antico», ha chiarito la professoressa Giardina, per poter fronteggiare in maniera consapevole le sfide poste dall’era della tecnica. Come è noto, la matematica, l’ingegneria, la medicina e l’architettura moderne affondano le proprie radici nei saperi antichi; ed è altrettanto indubbio come questi ultimi abbiano fornito basi teoriche e metodologiche valide ancora oggi.

Un momento dell'intervento del prof. Riccardo Chiaradonna
In apertura al suo intervento, la docente Giovanna Giardina ha ricordato come «il tema dell’intelligenza tecnica nel suo confronto con l’intelligenza naturale sia nato abbastanza presto, già in ambito presocratico», citando la figura di Anassagora e i sofisti Gorgia e Antifonte. Il primo, infatti, viene menzionato già da Aristotele nel suo trattato di carattere zoologico De partibus animalium: lo Stagirita mette in luce le connessioni che intercorrono tra tecnica e umanità facendo riferimento ad Anassagora, attribuendogli l’idea secondo cui l'uomo è il più intelligente degli animali perché «possiede le mani» (IV, 687a-687b: διὰτὸχεῖρας ἔχειν).
Proprio su questo tema controverso si sono confrontati gli studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche partecipanti al debate: Sandro Di Paola, Barbara Giacchi, Maria Grazia Ponzo, Federica Reale, Federico Sapienza, Gabriele Vinciguerra, Veronica Carmela Zuccaro. Seguendo un percorso comune, dalle origini della filosofia fino a Cartesio, ognuno di loro ha condiviso una propria idea sul ruolo della tecnica, dando voce agli antichi.
La riflessione degli studenti ha preso le mosse dai temi presenti nelle opere di Platone, in particolare nel Timeo e nel Fedro. Se nel primo testo, il filosofo ateniese presenta colui che conferisce la forma alla materia preesistente, ovvero il Demiurgo, nel cui nome già si trova un significato legato alla capacità di produrre e plasmare oggetti (in greco, il sostantivo ἔϱγον rinvia al “lavoro”, specialmente manuale, o anche al risultato di quest’ultimo); nella seconda opera ad essere presentato è il celeberrimo mito di Theut che indaga l’ambivalenza dell’arte della scrittura, definita φάρμακον: questo termine, già nella sua etimologia, possiede un’ambiguità in re, indicando, in base al contesto, una cura, oppure al contrario un veleno.
Successivamente, gli studenti del Disum hanno ripreso il pensiero di Alessandro di Afrodisia, uno dei più importanti commentatori antichi di Aristotele, il quale ha avuto un ruolo fondamentale nella trasmissione e nell’interpretazione del pensiero dello Stagirita, soprattutto in ambito metafisico e naturale. Egli muove le sue argomentazioni dal considerare la tecnica (τέχνη) come attività razionale dell’uomo, poiché essa nasce dalla conoscenza delle cause, dalla capacità di prevedere e di modificare la materia in vista di un fine, dunque teleologicamente direzionata.

Alcuni studenti che hanno partecipato all'incontro
Il professore Riccardo Chiaradonna ha iniziato il suo intervento specificando come nel mondo antico vi sia la consapevolezza dell’esistenza di una «pluralità di forme di intelligenza», ognuna con proprie peculiarità: al fine di una competizione tra l’una e l’altra o, ancor peggio, di una reductio ad unum, bensì in virtù di una sempre maggiore integrazione e complementarità tra esse.
Alcuni passi del De Natura Deorum di Cicerone offrono spunti interessanti su come i Romani del periodo tardo ellenistico riflettevano sul rapporto tra natura, tecnica (ars), e intelligenza umana. L’intera linea argomentativa dell’opera teologica ciceroniana (in particolare, del libro II, nel dialogo con Lucilio Balbo, esponente della dottrina stoica) si concentra su un’analogia fra arte umana e creazione divina: questa retorica dell’artefice è un riflesso culturale tipico del pensiero tardo ellenistico, dove le grandi invenzioni meccaniche (come gli automi di Erone di Alessandria) erano conosciute e ammirate, e dove «non vi era alcuna opposizione tra intelletto naturale e intelletto delle macchine», ha chiarito il prof. Chiaradonna.
Proprio gli automi di Erone di Alessandria — marionette mosse da ingranaggi, leve e pesi — sono un esempio del primo, timido tentativo di dare vita all’inanimato. Non è un caso che già i miti raccontano di macchine straordinarie: Efesto, dio fabbro, forgiava servitori metallici capaci di camminare; Dedalo progettava dispositivi che sembravano dotati di vita propria.
Oggi che l’intelligenza artificiale alimenta sogni e paure globali, la domanda, a mio avviso, resta simile a quella di allora: può una macchina davvero pensare? O stiamo, ancora una volta, costruendo soltanto il riflesso meccanico del nostro desiderio più antico, ovvero quello di replicare noi stessi?