Intersezioni. In dialogo con uno dei compositori: Ferdinando D’Urso

Dal rapporto con la musica al festival internazionale andato in scena al Centro Universitario Teatrale

Irene Isajia

Uno dei protagonisti di Intersezioni, il Festival di musica contemporanea, in scena anche al Centro Universitario Teatrale dell’Università di Catania, è il compositore Ferdinando D’Urso.

Il rapporto tra sé e la musica, da dove parte? E come arriva alla composizione?

«In realtà il rapporto tra me e la musica nasce con una costrizione, nel senso che ho cominciato costretto dai miei genitori che volevano insegnarmi che le cose si ottengono nel tempo e con fatica – racconta il compositore -. Per cui è cominciato con lo studio del pianoforte, con Giulia Gangi. Nonostante le grandi capacità didattiche di Giulia, non amavo particolarmente essere vincolato allo studio o obbligato a fare qualcosa. Poi l'appetito viene mangiando: la pratica della musica e la sua funzione aggregante hanno fatto sì che mi appassionassi a tal punto da fare il passaggio al sassofono come secondo strumento, legandomi con nodi sempre più stretti fino poi alla carriera musicologica». 

«La composizione arriva più tardi nell'idea che un musicista, secondo me, deve essere anche compositore in qualche modo – aggiunge -. È un’idea che mi proviene soprattutto dalle pratiche improvvisative. L'interesse per l’improvvisazione, vista come composizione estemporanea, come applicazione su una forma e sul contenuto da riversare all’interno di questa forma, è diventato poi, per me, anche applicazione sulla scrittura. Ho scoperto anche un amore, una voglia, un desiderio di mettere per iscritto alcune idee e da lì in poi mi sono messo in cammino, prima in maniera amatoriale, diciamo naïf, che mi portò ad un primo disco con un bellissimo trio nel 2012 e poi con lo studio con il maestro Giovanni Ferrauto per istituzionalizzare queste conoscenze e approfondirle». 

Ferdinando D'Urso

Ferdinando D'Urso

Nel settimo appuntamento di Intersezioni è stato dato spazio al melologo 

«Melologo è il termine con cui gli italiani intendono quello che spesso si chiama melodramma – spiega Ferdinando D’Urso -. Il melologo è una forma bistrattata della musica occidentale: i grandi compositori, stranamente, non vi si sono dedicati molto e il genere è rimasto sempre un po’ di nicchia. Mozart commentò con entusiasmo i melologhi di Benda, ma utilizzò pochissimo la forma. Nel Settecento Rousseau scrisse un bel melologo, il Pygmalion, che fece da apripista per gli altri. Nell’Ottocento abbiamo l’esempio di Liszt o Schubert, ma sostanzialmente è stato poco considerato». 

«È una forma in cui la recitazione si accosta, con tanto di sostegno, alla musica – aggiunge il compositore -. Io lo trovo molto funzionale: ne ho scritti diversi e quelli che ho messo in scena hanno avuto sempre una grande risposta da parte del pubblico, perché la parola recitata è più fruibile, più accessibile, rispetto al cantato e la musica si fa veicolo per questa parola recitata esercitando una forza di catalizzazione. Possiamo dire che è un ‘teatro potenziato’ dalla presenza della musica. Secondo me, tutto questo arriva al pubblico in maniera intensa: con l’ultimo melologo che abbiamo rappresentato qualche anno fa, dedicato a Brancati, la risposta del pubblico è stata densa, forte e tutti sono entrati dentro al gioco musicale».

Ferdinando D'Urso

Ferdinando D'Urso

“Cento di questi sogni”, un melologo articolato in sette quadri che fa pensare a Bohème

«La scelta della divisione in quadri è data dal fatto che ogni movimento è ispirato a dei soggetti delle opere di Jean Calogero e quindi, essendo ispirato a quadri mi è sembrato giusto identificare i movimenti con quel termine. Rispetto a Bohème, quindi, qui la suggestione è extra-musicale – racconta il musicista -. “Cento di questi sogni” racconta dei soggetti tratti dai quadri di Jean Calogero. Si tratta di un pittore catanese che ha vissuto buona parte della sua vita a Parigi per poi rientrare, per amore, a Catania. Ha vissuto ad Aci Castello, ma ha spesso operato fuori dal nostro territorio. Aveva uno studio a Parigi nella zona di Montmartre e si è dedicato molto al mercato internazionale. È stato poi riscoperto soprattutto a Catania, per quanto, a mio avviso, non abbastanza». 

Quali sono i soggetti dei quadri?

«I soggetti sono vari e ricorrenti nei suoi quadri: il “pesciscibile”, per esempio, un pesce dirigibile che vola nei cieli, ma anche paladini – racconta il compositore -. Calogero è un surrealista e i suoi soggetti vengono fuori dalla fantasia come se fossero sogni. Figure in piedi e di spalle come se aspettassero qualcosa, ma non si sa cosa, acque, panorami catanesi che diventano parigini come il Teatro Massimo che si sovrappone all’Opera Garnier. Sono proprio sogni molto colorati». 

«Per omaggiare le sue opere ho scelto i soggetti più ricorrenti, ma per Jean Calogero, così come mi confida Luigi Nicolosi, curatore dell’archivio e suo segretario, l’elemento più importante era il colore come d’altronde le note lo sono per la musica – aggiunge -. Più che i soggetti, dunque, è importante la suggestione cromatica: per esempio, una donnina di spalle non è quello che sembra rappresentare. Piuttosto il pittore aveva bisogno di una linea verticale di un certo colore in quel punto e questa diventa una donna. Se avesse voluto dipingere veramente una donna l’avrebbe dettagliata, invece è solo un accenno, un’idea, un sogno di donna». 

«Questi elementi ho cercato di mettere dentro alla trasposizione musicale – racconta il musicista -. Durante lo spettacolo proietteremo alcune opere di Calogero alle spalle dell’ensemble mentre viene eseguito il pezzo. Il desiderio di proiettare quelle tele tende a far riscoprire questo artista; per lo spettatore, vedere ciò di cui stiamo parlando, può essere utile. La rilettura musicale è molto personale e chiaramente non è detto che tutti vedano ciò che ci ho visto io. Si tratta più di suggestione: i quadri, più che descrivere il movimento musicale a cui sono collegati, ci servono per entrare nel mondo di Calogero, dentro questa pasta di colore, questi accostamenti». 

Ferdinando D'Urso

Ferdinando D'Urso

Intersezioni è un festival di musica contemporanea. Qual è l’elemento di maggior contemporaneità di questo lavoro?

«Entrambi i compositori vivi e vegeti la rende evidentemente un’opera contemporanea – ci tiene a sottolineare Ferdinando D’Urso -. Parlando più seriamente: c’è una ricerca di linguaggi originali e personali. Le opere sono entrambe molto fruibili; non bisogna aspettarsi un oggetto di musica contemporanea nel senso di serialismo integrale o di “informale” o di chissà quale avanguardia darmstadtiana. Sia in Filuzza che in Cento di questi sogni noto un forte collegamento con la provenienza geografica. I siciliani hanno un forte genius loci, secondo me, e in questa serata si sente; i pezzi sono tutt’e due colorati di nuances locali, Filuzza forse un po’ di più perché racconta una storia catanese: una trovatella, artista del coro e poi sarta del Teatro Massimo». 

«Anche Calogero però è legato alla sua Terra: fa delle scelte che fanno emergere il legame con Catania, internazionalizzandolo – continua -. Ad esempio, Calogero è nato alla Civita e ha nutrito un importante legame con il mare: lo racconta, ne racconta le barche. Ma dovendo rivolgersi a un pubblico internazionale sceglie di rappresentare le barche della Civita attraverso l’immagine della gondola, nonostante lui non sia mai stato a Venezia. E su quel mare di una Venezia fantastica compare la cupola della Badia di Sant’Agata o quella del Duomo». 

«Questa “sicilianità” si rende evidente in entrambe le composizioni, grazie ad elementi di linguaggio che non vogliono essere ricerca di colore locale ma desiderano far emergere una sensazione di “ferrosità” lavica – racconta il compositore -. Nel mio pezzo, in particolare, ci sono anche dei passaggi legati a tecniche aleatorie, a parti improvvisate che mi sono ritagliato, giacché da lì provengo e non volevo rinunciarci. I linguaggi sono tanti ma si tratta di una contemporaneità post-donatoniana, quella di quando le scuole di composizione compresero che non bisognava per forza alienarsi il pubblico e che si potevano tenere i linguaggi compositivi più aspri in tavolozza senza doverne necessariamente abusare ma, piuttosto, usandoli e dosandoli dove sia necessario in senso espressivo».