“La Bohème, più la studio e più mi piace”

Il direttore d’orchestra Carlo Palleschi racconta, dietro le quinte, l’opera pucciniana

Irene Isajia

Il Teatro Vittorio Emanuele di Messina porta in scena l’opera amata di Puccini, la metafora della vita, La Bohème. Nei giorni scorsi, dopo il grande successo di Aida dello scorso anno, la direzione artistica raddoppia la collaborazione con il regista Carlo Antonio De Lucia e il direttore d’orchestra Carlo Palleschi.

L’approccio di De Lucia è tradizionale con inserti di scenografie digitali che, con la loro profondità scenica, amplificano il già scritto sulle didascalie del libretto. La sorpresa che ha riservato agli spettatori è stata la sua presenza sul palcoscenico nel secondo quadro dell’opera, nella veste di maître di sala, oltre ad una Musetta attempata in pantaloni paillettati e frac (citazione che riprende la figura di George Sand, figura molto cara al regista per la sua indipendenza, forza e affermazione della propria libertà sessuale) e un giovane corteggiatore dall’aria del toyboy, ispirato all’Alberto Sordi di Signorina Margherita. Un ponte di significazione tra le figure nascoste del tempo andato delle periferie parigine e, le stesse, risonanza di una dimensione contemporanea in cui tutto è rivelato e possibile.

Sul palcoscenico l’unico cast con voci interpretanti che, al solo ascolto, esprimono drammaticamente sentimenti e relazioni davvero coinvolgenti: Marily Santoro è Mimì, Musetta è interpretata da Linda Campanella; nei ruoli maschili ritroviamo Paolo Lardizzone (Rodolfo), Luca Bruno (Marcello), Alex Martini (Schaunard) e Gaetano Triscari (Colline). Il Coro Lirico “Cilea” è diretto da Bruno Tirotta, mentre il Coro di voci bianche “Biancosuono” di Progetto Suono è diretto da Agnese Carrubba.

Suonare Puccini non è semplice, particolarmente quando si tratta di questa opera. Ci siamo intrattenuti con il direttore d’orchestra, Carlo Palleschi, che ci ha raccontato molteplici dimensioni dell’approccio musicale a La Bohème. Ricordiamo che proprio Palleschi, durante le recite, conduce l’orchestra senza partitura, con un metodo straordinario scritto nelle viscere della dimensione professionale, musicale ed emotiva.

Un momento dello spettacolo

Un momento dello spettacolo

La Bohème è l’opera più rappresentata di Puccini. Lei ha recentemente scritto un post sul suo profilo Facebook in cui dice «più la studio e più mi piace». Cosa le piace di quest’opera?

«Innanzitutto, come il compositore delinea, musicalmente, i personaggi, con temi particolarmente appropriati e poi, soprattutto, l’orchestrazione raffinatissima con varie composizioni della stessa figura musicale che, ogni volta che si presenta, è “vestita” con una strumentazione diversa», spiega Carlo Palleschi.

«Questa è un’opera particolare – aggiunge il direttore d’orchestra -. Sappiamo bene che è una tragedia poiché la protagonista muore alla fine, attraversando un particolare rapporto tra amore e morte, eppure fino al secondo atto sembra un’opera giocosa, quasi comica. Troviamo quattro ragazzi che si innamorano, che si divertono; siamo alla sera di Natale, ci sono cori, si avverte appena una lieve vena di gelosia da parte di Rodolfo che precipita fino ad arrivare al quarto atto e la musica, pur conservando lo stesso materiale tematico, soprattutto nel quarto atto, ha una svolta, dove i temi vengono trasfigurati con una maestria eccezionale. Dal punto di vista compositivo, Puccini è un grande architetto teatrale e musicale».

Puccini è un innovatore. Lo si evince anche dalla scelta di dividere l’opera in quadri e non in atti. Cosa cambia musicalmente, rispetto all’opera che potremmo definire “tradizionale”?

«Siamo alla fine della grande parabola del melodramma – spiega -. Con La Bohème si ha un punto di arrivo, in cui la parte musicale, all’interno del teatro musicale, si fluidifica sempre di più: le arie sono all’interno di un flusso che non si interrompe mai. È vero che le arie ci sono ancora, prova ne è l’aria di Mimì, di Musetta nel secondo atto, o di Rodolfo; gli unici che non hanno un’aria sono Chaunard e Marcello, nonostante il suo protagonismo. Ma Puccini sceglie di non scrivere arie per loro perché drammaturgicamente non servivano, viste nell’ottica di un flusso di accadimenti che avvengono anche dal punto di vista musicale e non solo teatrale».

Si dice che quest’opera di Puccini sia particolarmente autobiografica. In che senso?

«Pensiamo al fatto che nel racconto si presentano quattro ragazzi che, se non stanno proprio alla fame, hanno però tutte le sfumature dell’appetito; faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena e Puccini, da giovane scapigliato, anche lui a Milano aveva passato qualcosa di simile – risponde Carlo Palleschi -. È la vita dei bohemiens. I quattro giovani sono giovani e intellettuali, che vengono da realtà borghesi, sono artisti e hanno idee rivoluzionarie. Sono colti, fanno citazioni in latino, citano episodi della Bibbia, fanno giochi di parole molto sagaci».

«Da contraltare le figure femminili: Mimì è una donna semplice, Musetta è un po’ rosa dei venti e si accerchia di vecchi facoltosi – ci tiene a precisare -. Seppure possano apparire caratterialmente contrapposte, Puccini mette in risalto il loro cuore: Mimì si innamora di Rodolfo; Musetta innamorata di Marcello, apparentemente frivola, viene concepita come “donna di facili costumi” ma nelle ultime battute dell’opera mostra il suo lato interiore quando accompagna Mimì da Rodolfo perché vuole morire accanto a lui, e pregando la Madonna dice: “Sono indegna del tuo perdono ma Mimì è un angelo del cielo”. Questa frase dichiara la sua conversione, la riscatta da tutto».

In foto il direttore d'orchestra Carlo Palleschi

In foto il direttore d'orchestra Carlo Palleschi

La Bohème è un’opera che ha suscitato un grande interesse critico per le sue innovazioni culturali, drammaturgiche, musicali; un soggetto originale in cui si intreccia il mondo borghese visto nella sua realtà quotidiana, una storia romantica con inserti degni dell’opera buffa; ha un linguaggio semplice e diretto che colpisce chiunque lo ascolti, rivedendosi umanamente. Dal punto di vista musicale Puccini utilizza il leitmotiv di wagneriana memoria, in che modo?

«Questa tecnica prevede che ogni personaggio abbia uno o più temi a lui legati; li ritroviamo disseminati in tutta l’opera perché la musica è un flusso dentro cui rientrano tanti aspetti – spiega Carlo Palleschi -. Questo permette una unità architettonica al tutto in cui ogni materiale è scelto con grande attenzione per restituire armonia e proporzione, utilizzandoli con profonda coerenza compositiva generale. Un esempio lo possiamo ritrovare nel personaggio, e nel tema, di Chaunard: quando entra in scena nel primo atto, è allegro e festoso, si associa al sentimento di gioia per aver trovato i soldi da dividere con i compagni; nel quarto atto, il tema ritorna ma il ritmo rallenta, diventa triste, meditativo, nostalgico».

«Il personaggio, eppure, è lo stesso; è come incontrarlo prima a quindici anni e poi rincontrarlo a settantanove – continua -. Non si tratta solo dell’aspetto musicale ma anche di un’attenta tempistica teatrale che parte da una grande effervescenza che ha il suo apice nel secondo atto. Il dramma si va configurando nella malattia evidente nel terzo atto, una lieve ripresa con aspetti giocosi all’inizio del quarto atto e, infine, una caduta verticale con la morte di Mimì».

«Ciò che colpisce è che questi giovani, dinanzi alla morte, diventano improvvisamente adulti. Si evidenzia nell’aria di Colline in cui la metafora del “vecchio cappotto” rappresenta la propria vita che non si è piegata di fronte ai ricchi potenti, che si è nutrita di filosofia e arte, ma che ora, nel tempo della necessità, è importante dar valore a ciò che serve perché quel cappotto lo lega alla gioventù e ai “giorni lieti”. La loro è la filosofia del “carpe diem”. Da questo momento, la vita diventa consistente e non si può più scherzare, bisogna tornare con i piedi a terra», aggiunge.

«Quest’opera, dal punto di vista teatrale, è attraversata da diversi temi: l’amore è il tema centrale, un amore vero e profondo, capace di convertire gli animi e metterli di fronte alle proprie responsabilità. Forse proprio quello che porta al successo quest’opera che continua a resistere al tempo», precisa il direttore d’orchestra.

«Anche il libretto è fatto molto, molto bene. Pensiamo che Puccini sceglie di farsi affiancare non da un semplice librettista ma da uno sceneggiatore, Illica, e da un poeta, Giacosa – aggiunge -. Ancor prima di essere musicista, Puccini era uomo di teatro e coniuga il suo genio musicale al genio teatrale. Pensando al famoso walzer di Musetta, Puccini volle riutilizzare qualcosa che aveva già scritto e voleva un certo metro, così mette nelle mani del poeta la musica e gli chiede quel determinato tempo della scrittura. Non fu cosa semplice per Giacosa ma riuscita».

Un momento dello spettacolo

Un momento dello spettacolo

Sulla biografia di Puccini c’è un aneddoto singolare in cui si dice che egli vira verso il melodramma dopo aver visto l’Aida di Verdi. Che ne pensa?

«Non so se sia vero o meno, ma a quel tempo, il Maradona della musica era Verdi; magari oggi un ragazzino sogna di fare l’influencer, oppure il calciatore, ma al tempo di Puccini, neppure Chopin aveva quel seguito – spiega il direttore d’orchestra -. Vero è che il musicista da salotto viveva bene, la figura del concertista l’ha inventata Listz; i conservatori preparavano per diventare compositori ma poi i committenti erano o per musica sacra, di conseguenza diventavano maestri di cappella, o per il teatro. Nonostante le poche opere che Puccini scrive, possiamo coglierne la grande qualità musicale».

«Se guardiamo a La Bohème, da dentro l’opera è complicata da concertare; ogni battuta cambia due volte, tre volte il tempo ed è importante spiegare agli orchestrali dove fermarsi, dove riprendere – aggiunge -. Eppure ad ascoltarla sembra fluidissima! Questa è un’altra di quelle cose che mi piace sempre di più studiandola. Puccini è un grandissimo orchestratore (nonostante con quest’opera sia nella fase giovanile). Dosa l’armonia in modo spettacolare, pesa ogni accento per piegare la musica all’impressione del parlato. Pensiamo al fatto che i compositori scrivevano velocemente perché dovevano consegnare in fretta ai committenti».

«Il lavoro grosso lo facevano, poi, i copisti che impaginavano il tutto ma lavoravano su pagine “schizzate” – previsa -. È bene ricordare quanto Puccini si preoccupasse di porre ogni accento al posto giusto per piegare la musica all’impressione del parlato; non dobbiamo dimenticare che nella musica lirica ci sono dei cantanti e, di conseguenza, la linea di canto e tutta la musica che c’è intorno è basata su parole e su frasi che hanno una loro accentuazione naturale, nella fluidità del discorso. Questo non è scontato e lo si percepisce quando a cantare sono gli stranieri. Pertanto, per trovare una naturalezza della parola dentro la musica, Puccini ci fa uno studio particolarissimo, tale che è scritta per darne non solo la corretta accentuazione ma anche restituirne il senso».

Se dovesse invitare i giovani a vedere La Bohème, cosa gli direbbe?

«Gli direi di venire a vedere la musica – risponde Carlo Palleschi -. Il libretto de La Bohème potrebbe essere recitato, togliendo la musica, facendo finta che sia prosa. Ma i libretti di prosa non rendono; oppure vengono da tragedie tratte dalla tradizione letteraria come Tosca, Otello, Macbeth che partono dal teatro puro, dalla prosa e poi vanno in musica. Gli direi di lasciarsi trasportare dalla musica, comprendendo le parole, vedendo il potere della musica perché la musica innanzitutto potenzia la parola dandogli valore espressivo; dice cose non dette, come l’atmosfera che lascia il tema di Schaunard nel quarto atto, cambiando il ritmo dinanzi alla morte prossima di Mimì».

«Quest’ultima nota, nel cinema, sarebbe affidata alla colonna sonora; nel melodramma è l’orchestrazione a consegnare al pubblico tutte le emozioni – continua -. Solo l’opera compie questa magia. Rassicuriamoli! Non bisogna essere degli esperti per venire a vedere l’opera, perché l’opera parla a tutti e subito, basta lasciarsi condurre dal flusso della musica che diventa narrazione». 

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