Intervento di Teresa Graziano, associata di Geografia economico-politica del Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente e Fiduciaria regionale per la Sicilia della Società Geografica Italiana
“Strumento euristico per l’interpretazione di ambienti e territori, componente della qualità della vita, spettacolo commercializzabile, memoria genetica per la riproduzione delle identità territoriali, simulatore di realtà immaginarie, strumento di pianificazione ambientale e territoriale”.
Dalle suggestioni di questa definizione di paesaggio del geografo Giuseppe Dematteis (2010) emerge tutta la complessità di valori e significati, talvolta conflittuali, insiti in un concetto dalle diverse sfaccettature: termine d’uso comune, spesso declinato nell’accezione ereditata dagli approcci estetico-vedutisti delle arti visuali (il bel panorama); elemento di quadri normativo-istituzionali per la gestione del territorio; paradigma analitico-interpretativo di numerosi campi disciplinari, dalla geografia alla pianificazione.
Una complessità che si rispecchia nella varietà di derivazioni etimologiche racchiuse nella parabola semantica che, dal landscape/landschaft delle lingue germaniche al paysage/paesaggio, racchiude un caleidoscopio di prospettive e visioni.
Proprio a questa complessità, colta nella diversità di implicazioni simbolico-culturali, effetti materiali e proiezioni identitarie, è dedicata la Giornata Nazionale del Paesaggio che dal 2017 è celebrata in Italia ogni 14 marzo con l’intento di contribuire a “promuovere la cultura del paesaggio in tutte le sue forme e a sensibilizzare i cittadini sui temi ad essa legati”.
La “cultura del paesaggio”, dunque: ma cosa si intende esattamente?
La Convezione europea del paesaggiodel 2000 definisce il paesaggio “una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
Da questa definizione emergono tre elementi innovativi. Innanzitutto, la relazione di reciproca osmosi con il territorio, inteso come l’insieme delle dinamiche naturali e antropiche da cui si sviluppa il paesaggio e in cui allo stesso tempo il paesaggio si radica; la soggettività della popolazione che vi vive e lo usa, proiettandovi le proprie aspirazioni; e, infine, la dimensione relazionale all’interno della quale agiscono e si influenzano reciprocamente gli elementi che lo compongono.
È proprio questa la portata rivoluzionaria della Convenzione che, per la prima volta, sistematizza un concetto non più legato riduttivamente all’immaginario romantico del “bel paesaggio” da contemplare. Il documento supera certe dialettiche attraverso cui tradizionalmente si esplicano le differenze territoriali (urbano/rurale; terrestre/marino; di pregio/degradato): l’idillio bucolico delle distese di grano e i filari di vite aggrappati ai pendii, le insenature di mare cristallino e le montagne innevate, ma anche il caos di città trafficate e la congestione di regioni turistiche, la desolazione dei vuoti urbani e le aree degradate. Sono tutti scampoli di vita “ordinaria” che emergono dagli interstizi del quotidiano, instillando pratiche di identificazione/repulsione, attaccamento e affettività nei e sui paesaggi, leggibili attraverso la trama dei segni lasciati da processi di antropizzazione sedimentati nel tempo.
Non è soltanto il paesaggio eccezionale a meritare di essere tutelato, salvaguardato e pianificato ma, specchio e catalizzatore di processi identitari, è tutto il paesaggio a diventare espressione delle popolazioni, le quali hanno il diritto di goderne e allo stesso tempo il dovere di prendersene cura nell’ottica della sostenibilità.
L’intento è, da un lato, superare visioni cristallizzate e musealizzanti che caratterizzano certi approcci, soprattutto in Italia, dove norme e prassi sono ancora troppo vincolate alla visione del paesaggio come “bene culturale”: basti pensare che nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 il “notevole interesse pubblico” si indirizza ai “beni paesaggistici”, ovvero dotati di particolare valore naturalistico o storico-culturale. Dall’altro lato, l’obiettivo è democratizzare l’accesso della popolazione a pratiche partecipative che favoriscano le azioni di conservazione, nei casi specifici in cui la fragilità paesaggistica le renda necessarie, e soprattutto di gestione delle trasformazioni e progettazione dello sviluppo.
Il paesaggio, dunque, si configura non come una semplice sommatoria di elementi giustapposti, ma come un vero e proprio ipertesto, le cui molteplici diramazioni di senso lo rendono “leggibile” da ciascun soggetto in modo differente, come ci ricorda Benedetta Castiglioni ("Paesaggio e Società. Una prospettiva geografica, Carocci, Roma, 2022). Superata definitivamente la dicotomia tra natura e cultura, il paesaggio diventa un mosaico relazionale tra elementi che si (ri)combinano fra di loro, determinando un vero e proprio “prodotto sociale” nel quale la dimensione immateriale, nascosta alla vista, non è meno rilevante di quella tangibile che si può cogliere con lo sguardo.
Ponendo un’enfasi particolare sulla dimensione percettiva, la Convenzione non fa che enfatizzare la portata delle proiezioni simboliche dal e sul paesaggio: è quella che Franco Farinelli (1991) definisce “l’arguzia del paesaggio”, la capacità di incorporare in un unico concetto la realtà (forme, elementi, assetti territoriali) e la sua rappresentazione (valori plurali e processi di attribuzione di senso).
Da questa soggettività, inevitabilmente, scaturiscono i paesaggi contesi, i conflitti, gli usi contrastanti, le espropriazioni simboliche e materiali: dal landscape grabbing, che declina sul piano simbolico del paesaggio il ben più noto processo di land grabbing, agli effetti perversi della heritagization, la patrimonializzazione, che trasforma il paesaggio in contenitore di memorie e identità collettive, troppo spesso piegato agli interessi del marketing e del turismo.
Ma è proprio da questi conflitti che occorre partire: dalla loro presa in carico condivisa, critica e collettiva, per rendere il paesaggio un bene comune in cui attuare politiche di tutela che, come ricorda Castiglioni (2022), “non possono avere come obiettivo quello di ripristinare paesaggi del passato, né di fermare il tempo, quanto piuttosto di interpretare la tutela come gestione delle trasformazioni, agendo proprio sulla relazione tra passato, presente e futuro”.
Teresa Graziano