La memoria e l’oblio. Le parole, dopo la Shoah

L’intervento di Stefania Mazzone, ordinaria di Storia del pensiero politico al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania, sulla Giornata della Memoria

Stefania Mazzone

Quando scompaiono i testimoni, la memoria non è più “rimemorazione”, ma “commemorazione”, “dovere” di riattualizzazione di ciò che non è più nel ricordo.

Si tratta di una interpretazione del termine che in ebraico si traduce in zachor, quel tipo di memoria che ti mette al posto del soggetto storico e ti fa agire nel presente come tale, così come ogni ebreo, celebrando la Pasqua ebraica, si considera tra coloro che hanno abbandonato l’Egitto. 

Per questo la storia, in ebraico toldot, è storia di generazioni e non di fatti e la memoria è ciò che si oppone alla storia nella misura in cui riattualizza il passato nel presente. Una lotta affinché gli eventi del passato non divengano storia e, allo stesso tempo, una pratica di uso della storia per fare memoria, secondo gli insegnamenti di Benjamin, Buber, Levinas, Jaspers, Ricoeur. Anche prima della Shoah, e certamente dopo, l’ebraismo del XX secolo si esprime come una cultura della memoria.

L’ebraismo ha, infatti, informato di sé la filosofia europea radicandosi nella sua memoria. Questo l'argomento di uno dei libri più toccanti di Elie Wiesel, il premio Nobel per la pace nel 1986, tornato dai campi di concentramento di Auschwitz e Buchenwald. L’Oublié (1989) racconta la storia dell'ebreo Elhanan e di suo figlio Malchiel.

Il padre, invecchiando, sviluppa gradualmente una malattia che gli produce una sorta di amnesia che distrugge la sua memoria e, per estensione, la sua identità. E così anche per l'intera nazione di Israele. Spetterà al figlio Malkiel ricordare i luoghi del padre e rincorrere i mille sentieri della sua vita e dei suoi ricordi. Per Elhanan l'unica dimensione rimasta è il mero presente, il presente che emerge nel processo di dissoluzione, un presente di cui ognuno di noi è “ammalato”.

Qui, come in gran parte della letteratura ebraica di questo secolo, troviamo il giusto Giobbe perseguitato, dimenticato sia da Dio che dall'uomo, dimentico egli stesso di rispondere alle richieste di Dio. Paradossalmente, dunque, sono gli esseri umani a diventare la memoria immortale di Dio.

Pertanto, il lutto nella tradizione ebraica non va confuso con l’elevazione di monumenti alla Shoah o con celebrazioni rituali.

Un momento dell'incontro alla Feltrinelli. Da sinistra Giuseppe Speciale, Stefania Mazzone, Saul Meghnagi e Pinella Di Gregorio

Un momento dell'incontro alla Feltrinelli. Da sinistra Giuseppe Speciale, Stefania Mazzone, Saul Meghnagi e Pinella Di Gregorio

Non è un caso che la migliore cultura ebraica di questi anni abbia combattuto una coraggiosa crociata contro gli eccessi della memoria, contro la monumentalizzazione e sclerotizzazione della storia del popolo ebraico a cui si rischia di assistere dopo la Shoah, secondo un pericoloso paradigma che attribuisce agli ebrei ora il ruolo di vittime, ora di carnefici, in una dimensione astorica e, sostanzialmente, antisemita.

Paradossalmente, l'ebraismo mantiene la promessa di una memoria che trascende ogni oblio, nella misura in cui riconosce che il silenzio è talvolta più eloquente di qualsiasi racconto o romanzo, un silenzio che lascia dietro di sé uno "schema": la tradizione crea un vuoto nel quale dobbiamo “inventare”.

È la natura interpretativa e fondamentalmente selettiva della memoria che garantisce la conservazione dell'energia mentale necessaria per mantenere l'individuo entro i suoi limiti. È il rapporto con l'oblio che determina lo stile narrativo dell'individuo e lo stile storico e fatale della nazione. Infatti, è la scelta di cosa dimenticare e di come conservare ciò che resta, in relazione a ciò che viene dimenticato, a definire la memoria come il meccanismo da cui dipende l’identità.

Abraham Yehoshua ci esorta a superare la paura di dimenticare, denuncia i pericoli dell'oblio e un rapporto malsano con la memoria come fonte di minacce ai nostri rapporti con altri individui e alle altre culture. Nel suo  romanzo, Il Tunnel (2018), il protagonista impara a convivere con la demenza incombente di cui all’inizio ha terrore ma che, nel momento in cui l’importanza del dimenticare gli si fa presente, cambia la sua vita  in positivo.

Questo ci riporta alla questione della colpa. Se sembra praticamente impossibile individuare i responsabili della rottura irreparabile dei rapporti tra individui, ancor più inutile sarebbe cercare “vizi” originari nelle controversie e nelle controversie tra gli Stati come tra le persone. E soprattutto, appare pericoloso fare della ricerca di questa causa prima una precondizione della riconciliazione. Questo anche perché il senso di colpa è legato ai ricordi di come ci siamo raccontati e di chi o cosa abbiamo identificato come responsabile di ciò che ci è accaduto.

Un momento dell'incontro al Dipartimento di Scienze politiche e sociali

Un momento dell'incontro al Dipartimento di Scienze politiche e sociali

La storia raccontata da Yeoshua ne Il responsabile delle risorse umane (2004) è magistrale in questo senso. Il protagonista decide di assumersi la responsabilità delle perdite che non sono state causate direttamente, ma solo attraverso la partecipazione alla rete dell'indifferenza.

C'è qualcosa di meraviglioso in questo atto di "accettare anche una piccola responsabilità" per una tragedia di cui non hai colpa. Un modo di testimoniare e ricordare cose che non abbiamo mai vissuto direttamente, ma che continuano ad interessarci come individui, uomini o nazioni.

Il coraggio di dimenticare ciò che ci riguarda direttamente e testimoniare ciò che sembra oltre la nostra memoria è uno degli indizi più importanti che apprendiamo dalla letteratura ebraica.

Mai è stato così chiaro come alla disperata e impossibile ricerca dell'oblio per sopravvivere ai ricordi dolorosi corrisponda un'altrettanto disperata e impossibile ossessione della memoria . La voglia di ricordare tutto nella convinzione di stabilire un'identità, in realtà, impedisce lo sviluppo della sana dimenticanza e l’intrusione dei ricordi altrui che possono cambiarci e guarirci.

All’insegna dello zachor, il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania, insieme alla Summer School Odisseuro e a Gerta Human Reports, ha promosso due giorni di riflessione tra storia e memoria.

E, in particolar modo, una conversazione a partire dal volume I dieci. Chi erano i professori che firmarono il manifesto della razza (Bonanno, 2017), nei locali della libreria Feltrinelli di Catania, con la partecipazione di Pinella Di Gregorio, direttrice del Dipartimento, Giuseppe Speciale e Stefania Mazzone dell’Università di Catania e Saul Meghnagi, pedagogista e consigliere dell’Ucei. 

Al Dipartimento di Scienze politiche e sociali, invece, un incontro con le studentesse e gli studenti delle scuole superiori dal titolo “La giornata della Memoria.

Le parole e le cose: Genocidio, Crimini di Guerra, Pogrom, Apartheid”. Una giornata di presentazione del progetto dell’UCEI, rappresentata da Saul Meghnagi, che riafferma l’importanza della corretta e inequivocabile definizione delle parole come processo per una pratica della memoria attiva, inclusiva, mirante alla convivenza e alla pace. 

Foto copertina: Ansa