La mite

Adattamento da Dostoevskij di Valeria La Bua, per la regia di Davide A. Toscano/Valeria La Bua, andato in scena al Teatro del Canovaccio di Catania 

Thea Faro (foto di Dino Stornello)
La mite (foto di Dino Stornello)
La mite (foto di Dino Stornello)
La mite (foto di Dino Stornello)
La mite (foto di Dino Stornello)

«Negli ultimi tempi il numero dei suicidi è talmente aumentato che nessuno più ne parla». Questo scrive Dostoevskij nel maggio 1876 nella sua rivista ‘Diario di uno scrittore’, dove, nel novembre dello stesso anno, pubblica per la prima volta il racconto La mite (il cui primo abbozzo è in realtà di quasi dieci anni prima), affrontando proprio quel tema di cui nessuno più sembrava curarsi. Si ispira, dunque, a fatti di cronaca; in particolar modo al suicidio «mite» di una giovane sarta che si era tolta la vita gettandosi dalla finestra con in mano un’icona. 

Questa sarta nel racconto diventa la moglie del proprietario di un banco dei pegni, il quale nella notte seguente al suicidio della sua sposa tenta di trovare una spiegazione razionale per quel gesto estremo. Giudice di sè stesso e imputato a un tempo, egli prova ad assolversi dalle sue colpe, tra tutte il trattamento crudele riservato alla moglie dopo le nozze, e racconta i fatti «per come li comprende»; ciò mentre contempla il corpo morto della donna, che dopo quell’ultima notte sarà portato via da lui per sempre. 

In questo arco di tempo ricostruisce vari momenti della propria vita matrimoniale, con una peculiare modalità narrativa che Dostoevskij ha voluto definire «fantastica», poiché nel suo monologo «ora l’uomo parla a sè stesso, ora sembra rivolgersi a uno spettatore invisibile (non più tale in teatro, ovviamente, NdA), a un giudice» o a uno stenografo fittizio che appunta tutti i fatti meticolosamente affinché si possano esaminare per stabilire la sua colpevolezza (o la sua innocenza). 

Per questa sua struttura narrativa il racconto ben si adatta alla rappresentazione teatrale: se ne sono accorti Valeria La Bua e Davide Toscano, i due registi che hanno deciso di affrontare il testo dell’autore russo e di portarlo sulla scena, avendo fiducia nella sua eterna attualità in quanto storia che «riguarda i rapporti umani» (così Toscano in un’intervista).

In una scena essenzialmente spoglia, sullo sfondo grezzo del Canovaccio, che per la sua forma ricorda un po’ la parete di una cripta, un po’ l’abside di una chiesa (al suo centro, infatti, comparirà poi l’icona, quasi pala d’altare), il palcoscenico risulta idealmente diviso in due. 

Alla sinistra dello spettatore si trova la rete di ferro di un letto su cui è steso il corpo morto della ‘mite’ (Alessandra Pandolfini); durante la rappresentazione, questo letto verrà spostato varie volte, scandendo così i diversi momenti del racconto e fungendo anche da simbolica gabbia, dentro cui avviene il miracolo del canto della donna. 

La mite (foto di Dino Stornello)

La mite (foto di Dino Stornello)

A destra, invece, una sedia, fulcro dei movimenti dell’uomo. Legati a queste due aree del palco e ai relativi oggetti, i due – ma soprattutto il marito  (interpretato da Giovanni Arezzo) – invadono spesso il campo dell’altro, ma la prossimità fisica si rivela luogo di scontro: nelle emozioni che mostrano non sono mai in sintonia, mai entrambi vogliono la stessa cosa. 

Opposti risultano i protagonisti anche dal punto di vista sonoro e verbale: centrale è il contrasto tra la loquacità (e le urla) dell’uomo e il silenzio in cui si chiude la donna per tentare di sopportare il trattamento freddo, distaccato e anche violento che il marito le riserva. La ‘mite’ quasi non usa la voce, salvo per una breve battuta e un canto. 

Nonostante il suo silenzio, la donna è però, come ci ricorda anche il titolo del racconto, la vera protagonista, e questo si percepisce maggiormente nella rappresentazione teatrale. Innanzitutto lei è lì, presente sulla scena, non più solo oggetto dei discorsi del marito, ma soggetto autonomo. Se non usa le corde vocali, usa tutto il resto del corpo: ogni suo movimento è studiato e compiuto con precisione, ogni sua espressione – soprattutto un costante «sorriso diffidente, silenzioso, cattivo» – ci comunica i sentimenti che prova nei confronti del coniuge. 

Intanto questi, grazie all’eclettismo magnetico di Arezzo, talvolta in soliloquio, talvolta rivolgendosi all’uditorio, conduce lo spettatore attraverso ragionamenti alternati a flashback. Racconta della degenerazione del rapporto con la moglie, dell’amicizia di lei con Efimovič, suo vecchio compagno nell’esercito, che chiama in causa anche un passato da «vigliacco» con cui non ha fatto ancora pace; a seguire, della malattia di lei, e del momento in cui ella medita di ucciderlo, fino ad arrivare a quell’ultimo, triste giorno la cui notte non si è ancora conclusa.

Il disegno di luci curato da Davide Toscano e Simone Raimondo non fa che esaltare la struttura narrativa di cui sopra, affiancando in modo chiaro l’adattamento nel distinguere presente e passato, e creando anche dei momenti di transizione in cui sembra che in scena ci sia non la donna stessa, ma il suo spettro, con un uso del verde e del rosso che quasi ricorda quello hitchcockiano de La donna che visse due volte.

Anche lì, in effetti, abbiamo un ‘Pigmalione’ che cerca di plasmare la compagna a suo piacere, ma ne La mite le sue motivazioni rimangono del tutto sconosciute: non capiamo il perché del trattamento che il marito riserva alla moglie, né del tutto il motivo del suicidio di lei. «Non sapremo mai quanta parte abbiano anche rivolta e vendetta in quel salto dalla finestra. Il suo gesto s’iscrive nel silenzio al quale è stata condannata» racconta la slavista Serena Vitale

Incapace di guardare in faccia la realtà, infine l’uomo si chiude narcisisticamente (non a caso si specchia nell’acqua) nel suo ‘io’ e nella sua ‘verità’, come aveva fatto in tutti quegli anni e come, in generale, fanno molti dei personaggi di Dostoevskij. E così, lasciandoci senza una risposta univoca e definitiva, lo spettacolo si chiude esattamente come si è aperto: con l’uomo che si concentra sul presente («finché lei è qui, va tutto bene») e si isola («a cosa mi servono le vostre usanze, i vostri costumi, la vostra vita, il vostro Stato, la vostra fede?») sulle note di When I was a young girl di Nina Simone.