La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera e la crisi non generativa

Al Teatro del Canovaccio è andato in scena lo spettacolo del regista Nicola Alberto Orofino

Sofia Bordieri

Al Teatro del Canovaccio è andato in scena lo spettacolo La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera(un racconto apotropaico in quattordici capitoli) con la regia di Nicola Alberto OrofinoTratta dall’omonimo romanzo definito di “de-formazione” dallo stesso autore Alberto Ravasio, la messa in scena snocciola una storia apparentemente fatua ma che contiene una fitta costellazione di riflessioni.

Le attrici Roberta Amato e Loriana Rosto, insieme a un giovane impacciato, interpretato da Daniele Bruno, avviano lo spettacolo richiamando l’inizio dei telefilm americani per adolescenti, ossia scrivendo con i gessetti il titolo della storia a cui andremo ad assistere sulla parete nuda del fondale del palcoscenico. Tre, quindi, gli attori in scena che interpretano i diversi personaggi del racconto. Ciò che li differenzia agli occhi del pubblico sono i soggetti serigrafati sulle loro polo color caramello: BoJack Horseman, Karl Marx e Moana Pozzi.

La narrazione è divisa in quattordici capitoli, dichiarati di volta in volta con l’apparizione di cartelli plastificati, chiamati quasi sempre con gli stessi titoli del romanzo di Ravasio, finalista del Premio Calvino 2022 e del Premio Bergamo 2023. In ordine: Il transessualizzato, Il Falluce, Vulve umanistiche, Pornogonia, Culandia, Famiglia Cristiana, Scena madre, La manipolatrice testicolare, Il primo amore e altre sciagure, Anche io puzzo, Guido coprofago, Io sono Carmela Pene, Soluzione finale e La lettera.

La storia è “semplicemente” quella di un giovane, ex studente di filosofia mai laureato, che all’alba dei trent’anni vive ancora con i suoi genitori e non ha mai avuto esperienze con le donne. E che, a mo’ di Gregor Samsa, protagonista de La metamorfosi di Kafka, si risveglia un giorno non trasformato in enorme scarafaggio ma in donna. Seppur non abbia mai visto una vulva, la causa della trasformazione di Guglielmo pare essere stata la sua dipendenza dalla pornografia.

Alla narrazione del presente si sovrappongono man mano frammenti del passato: il suo rifiuto alle avance di una compagna durante una gita al liceo, l’indecisione per quale facoltà universitaria frequentare, la presa di coscienza di appartenere a una generazione “perduta in partenza” perché privata di prospettive lavorative, stabilità, pensione, benché alimentata da desideri. Tutti momenti che hanno gradualmente costruito l’impalcatura identitaria di Guglielmo. 

Un momento dello spettacolo

Un momento dello spettacolo

Questo il background di partenza, quindi, prima che iniziasse la clausura a base di pornografia e la già nota conseguenza della metamorfosi. In verità, in quella realtà online alienante, l’identità di Guglielmo si è sempre celata sotto il nickname di Carmela Pene, nome che manterrà dopo la trasformazione, provocata – ci viene spiegato – dall’attivazione di tre fasi progressive scaturite dalla fruizione del porno: 1) contemplazione, 2) interazione, 3) mutazione.

L’avvio della chat con il «negro», un «golem sessuale» che adesca Guglielmo-Carmela, è la sorpresa dell’algoritmo che li mette in contatto. Si torna poi al presente, al risveglio con il corpo da donna e all’inizio della ricerca di una risoluzione. Ad essere interpellati sono due personaggi assolutamente discutibili, la dottoressa Casoncelli che suggerisce come cura l’innamoramento, e un santone che rintraccia la causa della trasformazione in un verme addentratosi nel corpo del/della giovane, suggerendo di conseguenza di bere un “liquido santo” a base di urine.

Falliti entrambi i tentativi di tornare Guglielmo, a Carmela non resta che la riconciliazione con il suo nuovo corpo ottenuta tramite un’esuberante masturbazione, e qui Wish you were here dei Pink Floyd è una colonna sonora congeniale. La partenza verso “la città” e l’incontro con il negro segnano l’inizio di un finale aperto, benché surreale e metaforico.

Il regista Orofino ha adattato la storia romanzesca attraverso una narrazione che si sdoppia tra i personaggi, detta in terza persona talvolta anche da Bruno, unico maschio in scena che interpreta principalmente Guglielmo. L’utilizzo della terza persona evidentemente suggerisce uno scollamento personale, un allontanamento dalle identità, generando anche nel linguaggio un senso di straniamento. Lo spazio scenico è continuamente allargato tramite l’azione che abita anche gli ambienti adiacenti il palco, come gli spogliatoi, la biglietteria, il corridoio centrale della platea.

Stacchetti in stile TikTok, impiego di tracce musicali eterogenee (dal commerciale alla classica), costumi di “bassa” fattura, sono alcuni degli elementi che collaborano – insieme a una recitazione spesso strabordante – al raggiungimento di una temperatura scenica votata all’eccesso, quasi grottesca. Il grottesco, tuttavia, è una deriva che ha bisogno di essere maneggiata con cura. Perciò, alle volte, sono più il bizzarro e il comico a emergere, specie durante i momenti canori degli attori sovrapposti alle tracce (non strumentali) in sottofondo.

Un momento dello spettacolo

Un momento dello spettacolo

Alcune scelte registiche non convincenti, infine, ci sembrano quelle correlate al testo. Emergono, infatti, posizionamenti che risultano dozzinali rispetto a temi sensibili, potenzialmente pungenti se non trattati con consapevolezza. In particolare, sono da segnalare almeno quattro parti pedissequamente riportate dal romanzo.

La prima riguarda la “mummificazione” di Guglielmo Sputacchiera/Carmela Pene ovvero il suo bisogno di coprire il corpo mutato con riferimento alla donna islamica «nullificata dal nero», con uno sguardo tutto occidentalo-centrico. La seconda, è quella sulla fruizione del porno restituita come pericolosa e ingestibile, seppur diventi alla fine, nel bene e nel male, un elemento di “salvezza”.

L’aggettivo finocchio rivolto al nonno di Guglielmo e la relativa ipotesi di eredità della transessualizzazione è un terzo esempio: il mescolamento di orientamento sessuale e questioni di genere è assai problematico e nonostante l’assurdità dell’accostamento non emerge chiarezza in merito. Infine, il nome di Carmela Pene (tributo a Carmelo Bene?) pare incoronare il black humor di Ravasio. Questi gli elementi intercettati come principali che nel passaggio dal testo all’azione fanno inciampare la storia in vari cliché.

Il capitolo più interessante, invece, è Famiglia Cristiana, dove i genitori di Guglielmo, lui perito meccanico lei disoccupata volontaria, svelano i loro più profondi desideri e repressioni, rivelando le matrici del rapporto sfibrato con il figlio. Purtroppo, però, anche il finale scivola nel retorico: nella lettera di Guglielmo al padre c’è un miscuglio di problemi legati al lavoro, all’ignoranza, alla cultura, alla ricchezza e alla povertà che sa fin troppo di melodrammatico.

Tutto è complicato in sé e per sé, incapace di generare credibilità e riflessione. Se è vero che «tutto è in crisi tranne la crisi stessa», allora mettere in crisi – cioè separare, discernere – segni e significati è utile per ricostruirci culturalmente e progettare spazi di consonanza. 

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