L’eterno gioco degli inganni amorosi: Don Pasquale e l’arte della burla

Una "prima" tra leggerezza, ironia e malinconia al Teatro Massimo Bellini, restituzione di tutto il fascino senza tempo del belcanto donizettiano

Rossella Liliana Laudani (foto di Giacomo Orlando)

Ci sono serate in cui il teatro non si limita a essere solo un palcoscenico dove si rappresenta un’opera, ma si fa luogo vivo di dialogo tra passato e presente, tra arte e pubblico. La prima di Don Pasquale al Teatro Massimo Bellini di Catania è stata una di quelle occasioni in cui il sipario si apre su un sentimento condiviso. L’opera, dramma buffo in tre atti su libretto di Giovanni Ruffini e musiche di Gaetano Donizetti è uno dei titoli molto amato del repertorio ottocentesco.

Sotto la brillantezza, la leggerezza, l’irriverenza comica, si conserva la raffinatezza musicale tipica del belcanto che poggiano su quei temi più universali che l’opera porta con sé: l’invecchiare, la vanità, l’amore giovanile che sfida le convenzioni, l’inganno bonario, la trasformazione morale e sentimentale.

L’allestimento, firmato originariamente da Ugo Gregoretti per il Teatro Regio di Torino, è stato ripreso con mano elegante da Giandomenico Vaccari, che dichiara di voler rispettare l’impronta ironica originaria della regia, senza però, renderla statica o museale, ma che trova un proprio ritmo vitale, dinamico, capace di dialogare con lo spettatore contemporaneo.

Una commedia del 1843 spesso percepita come un’opera comica “di passaggio”, un divertissement tra titoli più drammatici o epici che, pur ambientata in un mondo lontano, parla ancora oggi con sorprendente attualità, in un continuo gioco di specchi in cui il pubblico ha potuto riconoscere qualcosa di sé, dietro la leggerezza del tono, emerge una riflessione malinconica sull’età, sull’amore che cambia, sull’illusione di poter fermare il tempo con il denaro o il potere e sull’umana fragilità.

Le scene, sobrie ma suggestive, portano la firma di Eugenio Guglielminetti, hanno saputo ricreare un ambiente domestico borghese realistico ma mai claustrofobico, evocando la realtà ottocentesca, senza però appesantire l’azione e dando un equilibrio tra la funzionalità narrativa e l’estetica, che lascia spazio al gioco teatrale e alla dinamica comica dell’opera.

I protagonisti sul palco

I protagonisti sul palco

I costumi, anch’essi curati dallo stesso Guglielminetti, risultano fedeli all’epoca, ma arricchiti da tocchi di vivacità cromatica che riflettono il tono brillante della partitura donizettiana. Spazio anche al disegno visivo, ricco di chiaroscuri creato dalle luci di Gaetano La Mela, che modulano lo spazio scenico con grande intelligenza drammaturgica.

La trama si sviluppa con il ritmo tipico della commedia degli equivoci: Dario Russo ha dato vita a un Don Pasquale testardo ma vulnerabile, più umano che grottesco, comico; un anziano ostinato, vanitoso e un po’ ridicolo che cerca di sfuggire al tempo e si illude di poter controllare la realtà secondo i propri desideri.

Deciso a diseredare il nipote Ernesto perché si rifiuta di sposare una donna da lui scelta, verrà tratto in inganno, che seppur con una mossa bonaria, costringe ogni personaggio a fare i conti con i propri limiti, con la trasformazione inevitabile del sentimento, con quella fragilità che ci rende, in fondo, tutti umani. Un ruolo che richiede grande equilibrio e contrasto tra comicità e uno spessore umano e vocale nelle parti più patetiche e liriche.

La sua voce piena e molto cupa ha saputo restituire tanto la goffaggine del personaggio quanto la sua sincera, per quanto ingenua, sofferenza. Vittima designata della sua stessa ostinazione, suscita il riso ma anche una certa empatia.

Nel ruolo di Ernesto, abbiamo il tenore Jack Swanson, un giovane innamorato di Norina che sceglie di non cadere nel manierismo riuscendo a dare al personaggio freschezza attraverso una linea melodica decisa e affrontando con una leggera ed evidente fatica vocale le arie più celebri, tra cui la celeberrima Com’è gentil.

Un dettaglio della scenografia

Un dettaglio della scenografia

La Norina della serata è stata Marina Monzó, una giovane di spirito indipendente; ruolo centrale richiedente agilità vocale, una presenza scenica carismatica e una evidente padronanza del ruolo capacità sia nella parte comica che nei momenti lirici quali duetti e virtuosismi come in Quel guardo il cavaliere.

Le sue colorature sono state precise, ben sostenute, e ha saputo giocare con il personaggio con una malizia tutta teatrale, senza mai risultare forzata. In So anch’io la virtù magica ha incarnato una Norina arguta, ma anche astuta. Entra in scena il Dottor Malatesta, amico di entrambi i giovani, interpretato da Nikolai Zemlianskikh, che orchestra un piano per rimettere a posto le cose: Norina fingerà di essere Sofronia, una finta sorella di Malatesta, da dare in sposa a Don Pasquale.

Una volta “sposata” ‒ con un matrimonio fittizio celebrato da un falso notaio ‒ Norina inizierà a tormentare il vecchio con spese folli, capricci e ribellioni. L’obiettivo? Farlo pentire della scelta e riportarlo alla ragione. Il piano riesce, e, stremato dall’esperienza, Don Pasquale benedirà l’unione tra Ernesto e Norina, riconoscendo il valore dell’amore autentico e accettando con ironica rassegnazione la propria sconfitta. Dottor Malatesta è un personaggio arguto, istigatore delle vicende, spesso mediatore comico tra Don Pasquale, Ernesto e Norina.

Con la sua verve scenica e una voce ben modulata, ha saputo tenere insieme i fili della vicenda, trasformandosi in un perfetto complice ma anche in un narratore implicito dell’azione. Il duetto con Don Pasquale Cheti, cheti, immantinente, è stato un piccolo capolavoro di ritmo, intesa e musicalità, senza cadere in cliché.

E, infine, il Notaro interpretato da Dario Giorgelè, figura di servizio, ma spesso elemento che obbliga al realismo drammatico o burlesco. La sua presenza scenica, anche se non protagonista, contribuisce al clima della commedia.

Un momento del concerto

Un momento del concerto

Sul podio, il giovane direttore d’orchestra Riccardo Bisatti ha guidato l’orchestra del Teatro Bellini consegnando una lettura brillante e sfumata della partitura donizettiana. La sua direzione si è distinta per un approccio energico ma sempre misurato, capace di far emergere la leggerezza frizzante del dramma buffo senza scivolare nella superficialità.

Ha mostrato padronanza del linguaggio donizettiano, valorizzando l'agilità del fraseggio orchestrale e curando con attenzione le dinamiche interne dell’ensemble. Notevole la sua capacità di accompagnare le voci con precisione e flessibilità, assecondando le esigenze dei cantanti nei recitativi così come nei numeri solistici e nei concertati.

Una lettura che ha messo in luce tanto l’ironia quanto le venature malinconiche che attraversano l’opera, restituendo in pieno quella doppia anima ‒ comica e sentimentale ‒ che è alla base del capolavoro di Donizetti. Il rapporto tra buca e palcoscenico si è rivelato fluido e ben controllato, contribuendo a mantenere un ritmo teatrale sempre vivo e coerente. I tempi sono stati agili, ben sostenuti, anche nell’interazione con il coro diretto da Luigi Petrozziello.

Composta da Gaetano Donizetti nel pieno della sua maturità artistica, quest’opera buffa conserva intatta la sua forza teatrale e musicale, capace di divertire ma anche di toccare corde più profonde. In un’epoca in cui il mondo dell’opera tende spesso a inseguire l’effetto scenico o l’originalità a tutti i costi, la produzione del Teatro Massimo Bellini sceglie una strada diversa: quella della cura artigianale, dell’equilibrio tra tradizione e vivacità scenica, del rispetto per il testo e per lo spettatore, confermando ancora una volta che il belcanto italiano ha molto da dire ‒ soprattutto quando viene trattato con intelligenza, passione e consapevolezza teatrale.

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