Nasce a Catania un centro di ricerca accademico di respiro internazionale che aspira a restituire centralità alla cultura greca e latina. A settembre apertura ufficiale con una cerimonia ispirata al Mito di Orfeo
SSC sta per School for Saving Classics, l’accademia in difesa dei “classici”, ma anche per Scuola Superiore di Catania, proprio lì dov’è nata, a margine di uno dei “colloquia” internazionali promossi per celebrarne il 25esimo anniversario, l’idea di istituire un Centro di ricerca interuniversitario dedito alla salvaguardia e alla valorizzazione dei classici greci e latini, ma anche al Fortleben, ossia allo studio della ‘sopravvivenza’ della tradizione greco-romana nella modernità.
L’ideatore e primo direttore è il prof. Orazio Portuese, associato di Lingua e Letteratura latina nel Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania e giovane presidente del corso di laurea in Lettere, da sempre – confessa con un sorriso – mosso dall’impulso di «diffondere il verbo antico».
Il Centro si avvale della collaborazione dei dipartimenti di Scienze umanistiche, dove ha stabilito la sede, di Giurisprudenza, Scienze della Formazione e Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania, con una cinquantina di docenti coinvolti, e del supporto di una rete internazionale di partner accademici – tra cui le università di Parma, Strasburgo, Heidelberg, Newcastle e Virginia – e di istituzioni specializzate come il Centro studi classica (IUAV) e la World Philology Union di Oslo. «L’obiettivo – spiega Portuese -, alquanto ambizioso ma necessario, è quello di restituire centralità alla cultura classica greca e latina, valorizzandone la straordinaria eredità attraverso un approccio integrato e multidisciplinare».
Come è nata l’idea di istituire all’Università di Catania un Centro di ricerca dedicato alla ‘salvezza’ e alla riscoperta della cultura classica?
Il 28 novembre 2023 ho promosso un Colloquium internazionale presso la Scuola Superiore di Catania dal titolo ‘School for Saving Classics’ (SSCl) che, oltre a celebrare due insigni classicisti del nostro Ateneo, la latinista Rosa Maria D’Angelo e il filologo classico Antonino Maria Milazzo, al cui magistero si deve l’avvio di un percorso di antichistica all’interno stessa Scuola Superiore, era incentrato sul tema della cosiddetta Cancel Culture: un’espressione, ormai diffusa, per descrivere una grottesca forma di ‘cancellazione’ del passato, che dimostra quanto avesse ragione Walter Benjamin, quando diceva che «neppure i morti saranno al sicuro, se il nemico vince».
E la cultura classica è davvero a rischio di cancellazione?
Se si volesse tentare una definizione, per quanto provvisoria, di tale fenomeno, bisognerebbe forse partire dall’idea, insinuante e perentoria insieme, che il passato debba essere emendato, riscritto, talvolta persino derubricato dai suoi stessi accadimenti. O meglio: che certi fatti, certe espressioni dell’umano – giudicate oggi inammissibili o offensive – non meritino più nemmeno la sopravvivenza nella memoria, se non come colpe da espiare o documenti da censurare.
Accade così che la Cancel culture, sovente animata da un intento correttivo che sconfina nell’anacronismo morale, finisca per richiedere – talora con zelo militante, talaltra con compiaciuto moralismo – l’abbattimento di statue ritenute indegne (come quelle di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti), il silenzio sui simboli ritenuti distanti dai valori del presente (come le vestigia del Ventennio fascista in Italia), il bando della lettura dei classici greci e latini in lingua originale, o addirittura la loro estromissione dai programmi scolastici e universitari. In questo scenario si inscrive la nascita della School for Saving Classics: un atto di ‘resistenza’ al tentativo di cancellare il nostro orizzonte simbolico, la nostra memoria identitaria, la nostra tradizione, che non è adorazione di ceneri, ma fuoco da tenere acceso.
Ma è opportuno, in tutti i casi, conservare anche certi orrori del passato e tramandarli?
I contesti sono diversi, ma una sola è l’illusione: che eliminare un simbolo equivalga a correggere la storia. Così non si educa: si diseduca. Perché ciò che va insegnato – alle nuove generazioni, che di paideia hanno urgente bisogno – è la capacità di discernere, non la tentazione di cancellare. Occorre mostrare il passato per intero: le sue glorie e le sue infamie, i suoi slanci e i suoi crimini. Cancellare è sempre più semplice che comprendere: ma è anche più sterile.
E tutto questo accade – paradossalmente – proprio mentre il presente si proclama più aperto, più inclusivo, più dialogante. Ma l’inclusione si rovescia in esclusione, il dialogo si trasforma in interdizione, e il tempo, invece di essere interrogato nella sua irriducibile alterità, viene costretto a parlare la lingua d’un eterno presente assolutizzato, che non tollera contraddizione né distanza: quello che T.S. Eliot definiva con sarcasmo «il provincialismo del tempo presente», cioè il vecchio errore dello storicismo ingenuo, per cui il tempo che viene dopo sarebbe, per ciò stesso, “più vero” del tempo che lo precede.
Una sorta di damnatio memoriae travestita da progresso. Non a caso abbiamo scelto come simbolo del nostro Centro di ricerca un olio su tela di Magritte (risalente al 1948), noto con il titolo di ‘La memoria’ e raffigurante la testa di una statua femminile che sanguina.
Per quale motivo?
È un’immagine dal significato ambiguo: se lo schizzo di sangue proviene dal volto della donna, si dovrà intendere che un ricordo doloroso, nel riaffiorare, riapre una ferita del soggetto rappresentato; se, invece, gli schizzi di sangue sulla fronte della statua provengono da un corpo esterno, probabilmente ucciso in modo violento, si dovrà ritenere che la testa ha assistito, muta ed impassibile, all’omicidio, di cui conserverà la memoria senza poterla comunicare a nessuno. Ecco il valore simbolico di questa immagine: l’arte (e la cultura in generale), come la statua, non può fare altro che starsene a guardare mentre gli uomini si massacrano a vicenda, con una macchia di sangue come ricordo indelebile. L’unica speranza è affidata alla foglia verde, la quale indica che la memoria è qualcosa di vivo, in contrapposizione alla statua di pietra inerte.
A chi vuole rivolgersi il nuovo Centro di ricerca?
I destinatari privilegiati sono anzitutto gli studenti, sia delle scuole superiori sia dell’università, per i quali il Centro intende configurarsi come spazio di formazione avanzata. In particolare, attraverso seminari, corsi intensivi, tirocini, e percorsi di approfondimento su aspetti specifici della cultura greco-latina (ritmica, metrica, prosodia, musica antica), il Centro si rivolge a giovani motivati, desiderosi di acquisire strumenti di lettura storica, linguistica e filologica atti a interpretare in chiave critica il patrimonio classico.
Ci rivolgiamo inoltre agli insegnanti, offrendo percorsi di aggiornamento e formazione scientifica, nonché opportunità di coinvolgimento attivo nella promozione della cultura classica nelle scuole e nei contesti educativi. Attraverso attività laboratoriali, cicli di conferenze e seminari specialistici, il Centro mira a rafforzare il dialogo tra scuola, università e territorio, consolidando la trasmissione dei saperi antichi come veicolo di cittadinanza culturale. Sul piano accademico, il Centro si configura come nodo strategico per ricercatori e studiosi delle discipline classiche e affini.

Il Teatro greco di Siracusa
Ci sono altri esempi del genere in università europee o americane? Pensate di collegarvi ‘in rete’ con altre realtà analoghe?
Esistono altri centri di ricerca analoghi, in Italia e all’estero, che condividono – seppur con modalità e orientamenti diversi – la finalità di salvaguardare e promuovere la classicità greco-romana nella cultura contemporanea. Tra questi, il Centro Studi “La Permanenza del Classico” – Università di Bologna; il Centro Studi classicA – Iuav di Venezia; il Centro Interuniversitario di ‘Studi sulla Tradizione’ dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, nato in collaborazione con l’Università della Repubblica di San Marino (Dipartimento Storico e Giuridico), l’Università degli Studi di Padova e l'Università di Trento; The Center for Hellenic Studies – Harvard University (Washington DC / Grecia); la World Philology Union (WPU) – Oslo.
Tuttavia, rispetto a questi centri, spesso orientati a una prospettiva disciplinare o storico-letteraria, la School for Saving Classics si caratterizza per un progetto sistemico (filologia, diritto, musica, arti, cinema), per un’apertura al pubblico non accademico (RAI, scuole, giornalismo culturale), per una forte vocazione contro la Cancel culture, e per la dimensione laboratoriale e formativa, rivolta sia alla scuola sia all’università.
E quali attività intendete realizzare?
Abbiamo tanta carne al fuoco. Stiamo creando, ad esempio, un Atlas digitale, con un database destinato a ‘contenere’ tutti i testi della classicità greco-romana, corredati da apparati di commento in cui saranno riportate tutte le tracce delle loro reviviscenze nella storia della letteratura, dell’arte, della filosofia, del diritto, della musica. Attraverso stage e tirocini vi stanno già lavorando molti studenti del Disum.
Inoltre stiamo organizzando convegni e seminari interdisciplinari e trasversali, con specialisti di vari settori, chiamati a confrontarsi sul Fortleben dei classici greci e latini: archeologi e storici dell’arte, storici del cinema, del teatro e della musica, storici del diritto, filosofi, italianisti, francesisti, anglisti, germanisti, etc. (modernisti lato sensu).
Valgano come esempi: un convegno di classicisti e italianisti che ricostruiscano le fonti classiche degli scritti di Cesare Pavese; un convegno di classicisti e slavisti che mettano a fuoco le fonti ‘classiche’ (e finora per lo più ignorate) di un poeta russo come Aleksandr Sergeevič Puškin, assiduo lettore di Quinto Orazio Flacco; un convegno di classicisti e storici della musica che indaghino le fonti classiche dei Madrigali di Claudio Monteverdi; un convegno di classicisti e storici del cinema che studino le fondamenta storico-linguistiche e cinematografiche di un film come Il primo re di Matteo Rovere (2019), interamente girato in protolatino e dedicato alle origini di Roma e alle figure di Romolo e Remo. Stiamo gettando le basi per la creazione di una collana dedicata al Fortleben dei classici greci e latini, a cura del Centro“School for Saving Classics” (SSCl), ove saranno pubblicati gli atti dei convegni del Centro e qualsiasi altro studio, purché dedicato alle tematiche di nostro interesse.
A vostro avviso, la società è consapevole della necessità di conservare e ravvivare questo patrimonio?
Quest’ultimo è forse l’aspetto più importante del nostro Centro: il tentativo di rinnovare l’approccio alla cultura antica, rivolgendoci alla società civile, nella sua dimensione più ampia. Nelle università i pochi antichisti superstiti promuovono convegni e seminari volti a (ri)accendere nelle comunità studentesche l’amore per la cultura greco-romana; nell’editoria fioccano libri di taglio più divulgativo con cui specialisti del settore tentano di smascherare i fraintendimenti di fondo della cancel culture (Borgna, Lentano) o di mostrare quale grave mutilazione rischi la nostra società con una rinuncia alla cultura greco-romana (Canfora, Dionigi).
Noi stessi stiamo svolgendo periodici cicli di incontri con rappresentanti della cultura contemporanea che abbiano una formazione ‘classica’ (registi, giornalisti, attori, scrittori, cantanti, musicisti, etc.) e prevediamo attività in convenzione con la Rai, con possibilità di registrare e archiviare gli eventi pubblici del Centro nelle piattaforme di RAI Scuola o RAI Cultura.
Eppure non sembra ancora chiaro il messaggio: dire o scrivere che quella cultura, insieme alla civiltà ebraica, ha ‘sagomato’ la nostra Europa, ribadire che senza il latino non sarebbe mai esistito un ‘lessico europeo’, non sono più moniti sufficienti. Allora è forse il momento di cambiare rotta.
Non serve più ripetere che i classici greci e latini rappresentano le nostre ‘radici’: è un concetto abusato, privo di valore, perché le radici stanno nascoste, sottoterra, mentre la cultura greco-romana affiora in superficie, la viviamo, la respiriamo, la vediamo quotidianamente. E per evidenziare queste radici non possiamo più soltanto studiare i classici in laboratorio, in vitro (come facciamo nelle università), ma dobbiamo dare voce ai classici e dialogare con esponenti della cultura contemporanea che, pur non essendo addetti ai lavori, sanno dare voce ai classici: mi piace ricordare che proprio quest’anno abbiamo avviato una collaborazione con il Mythos Troina Festival, in dialogo con l’attore Luigi Tabita, e abbiamo presentato al Disum l’opera musical ‘La città delle Amazzoni’ di Alessandro Incognito, andato in scena dall’8 all’11 maggio al Teatro Ambasciatori di Catania.
E i social network? Possono aiutare nell’opera di “diffondere il verbo antico” o sono una frontiera da non presidiare?
Tutt’altro.In questo nostro tempo che sembra rifiutare la durata, anche ciò che resiste può (e deve) trovare forme nuove per manifestarsi. È con questo spirito, più che con una resa alle mode, che guardo alla possibilità di “diffondere il verbo antico” anche attraverso i social network. Ho scelto, non senza esitazioni e dubbi, di cimentarmi io stesso con Instagram e TikTok, due piattaforme notoriamente ostili alla complessità e al silenzio. L’ho fatto con la consapevolezza che la classicità, se davvero possiede la forza che le attribuiamo, deve sapersi misurare anche con l’effimero, con l’accelerato, con il volatile.
E l’ho fatto con la convinzione che tradizione non significa replicare ciò che è stato, ma trasmettere ciò che conta, mutandone la forma senza tradirne il senso. Anche un reel, una breve clip, un frammento sonoro o una citazione in sovraimpressione possono agire come “epigrammi” digitali, forme di resistenza minima ma significativa. Il problema non è tanto il mezzo, quanto il rispetto che si riserva al contenuto. Naturalmente, non tutto è salvabile, e la soglia del “tradimento” è sempre vicina: banalizzare un testo, decontestualizzare un autore, ridurre Sofocle o Seneca a un meme motivazionale è un rischio reale. Luciano Canfora lo ricorda con vigore: la cultura classica è per sua natura contro-attuale, non compiacente.
Ma questo rischio va corso, a patto che l’approccio sia critico, onesto, filologicamente strutturato, e che ogni contenuto sia una porta aperta, non una scorciatoia. I social non sono la sede della filologia – non ancora – ma possono essere anticamere dell’interesse, soglie, trampolini. Possono sollecitare la curiosità di chi, altrimenti, non incrocerebbe mai un distico di Properzio o un pensiero di Marco Aurelio. Non devono sostituire lo studio: possono, però, sollecitarlo. In virtù della mia esperienza, posso dire che alcuni giovani hanno letto per la prima volta una massima di Catone o di Cicerone non su un manuale, ma sotto un post.
Ed è bastato quel gesto minimo per creare un’eco, un varco, una possibilità. È già molto, in un’epoca che si crede post-umana e rischia invece di diventare post-umanistica. In fondo, anche Platone diffidava della scrittura. Oggi, forse, dobbiamo accettare che anche uno schermo verticale può contenere una stilla di verità, purché chi lo usa sappia da dove scaturisca quella stilla, e dove vuole condurre chi l’ha fatta sgorgare.
E lei, in aula, cita ogni tanto delle massime di autori latini o greci, tra quelli che non circolano spesso sui social, che possono suggerire qualcosa di utile ai giovani di oggi? Come se fossero degli “influencer” senza tempo…
Sì, a lezione mi capita spesso di citare massime di autori greci e latini che non godono del favore dell’algoritmo, ma che sanno ancora parlare in profondità. In un’epoca di slogan e sintesi estreme, le parole antiche – lente e dense – sono come sententiae in controtempo, che si incidono nella coscienza.
Eccone qualcuna che, a mio avviso, varrebbe la pena seguire ancora oggi.
- Eschilo, πάθει μάθος (Agam. 177), “imparare soffrendo”. Due parole, un’intera filosofia tragica. In un tempo che anestetizza il dolore, la tragedia greca ci ricorda che il sapere autentico nasce non dalla comodità, ma dalla frattura.
- Catone il Censore, Rem tene, verba sequentur (Libri ad Marcum filium, fr. 15), “Bada di possedere i contenuti, le parole verranno”. Una lezione radicale contro la vuota eloquenza. In un’epoca che privilegia la forma sulla sostanza, Catone ci ricorda che prima delle parole viene la competenza, lo studio. È un invito al pensiero prima della comunicazione, all’essere prima dell’apparire.
- Orazio, Est modus in rebus (sat. 1, 1, 106), “C’è una misura nelle cose’. Una delle massime più rappresentative della saggezza romana: la ricerca dell’equilibrio, della giusta misura, del rifiuto dell’eccesso. In un’epoca di polarizzazione e radicalizzazione, questa sententia è un invito alla moderazione.

Un momento dell'intervento del prof. Orazio Portuese
Negli ultimi anni sono state molte le rivisitazioni “pop” dei classici: si va da prodotti internazionali come la saga di Percy Jackson al grande successo delle tragedie greche proposte al teatro greco di Siracusa, per lei queste opere sono un bene o vanno a “ledere” l’apprendimento dei classici? Contribuiscono positivamente al Fortleben di queste opere?
Occorre fare una distinzione. Come osserva Ivano Dionigi, la cultura classica è tale proprio perché non teme la contaminazione, ma chiede che ogni riuso – sia colto, teatrale o popolare – sia motivato da un’autentica tensione conoscitiva. Le rivisitazioni “pop” dei classici non sono per natura disdicevoli, né per forza dannose: il problema non sta nel “se” si attinge ai classici, ma nel “come”. Ed è proprio da questa consapevolezza che occorre partire per rispondere.
La saga di Percy Jackson, ad esempio, ha indubbiamente avvicinato molti giovani alla mitologia greca, offrendo un primo contatto – seppure romanzato e semplificato – con nomi, personaggi e divinità del pantheon antico. In questo senso, essa svolge una funzione propedeutica, persino “missionaria”, nel senso etimologico del termine: porta il classico nel mercato dell’immaginario giovanile. Tuttavia, ciò che essa offre è un’immagine profondamente deformata del mondo greco, dove la profondità tragica, la dimensione politica e teoretica del mito vengono neutralizzate in favore di un racconto d’avventura, rassicurante e spettacolare. Il rischio – se questa fruizione resta isolata – è quello che potremmo definire l’illusione del classico: cioè la sostituzione della complessità con una caricatura seduttiva.
Diverso è il caso delle rappresentazioni teatrali al Teatro Greco di Siracusa, che negli ultimi anni hanno saputo coinvolgere un pubblico vasto, mantenendo un notevole rigore storico, scenico e registico. Qui la rilettura è spesso filologicamente informata, e pur nell’attualizzazione del gesto teatrale, il testo conserva il suo statuto di parola problematica, di interrogazione etica e politica. In questo caso, sì, si può parlare di un Fortleben pienamente virtuoso: non semplice sopravvivenza del classico, ma sua rinascita in un contesto vivo e condiviso. Il nostro Centro guarda con attenzione a queste dinamiche. Noi non vogliamo chiudere i classici in una teca, ma liberarli dalla loro cristallizzazione scolastica.
Eppure, per farlo, è necessario che ogni operazione divulgativa – dal cinema alle serie tv – sia accompagnata da un dispositivo critico, che consenta al lettore o spettatore di tornare al testo, di confrontarsi con la sua lingua, la sua struttura, la sua densità. Il Fortleben non è mai neutro: può essere un esercizio di memoria, ma anche un’inconsapevole profanazione. La sfida è dunque trasformare ogni riuso in occasione di studio, ogni adattamento in invito all’approfondimento. I classici ci parlano solo se sappiamo ascoltarli nella loro lingua, nel loro tempo, nel loro silenzio. È in questo ascolto che si decide se le forme “pop” saranno veicoli o ostacoli alla comprensione. In sintesi: non è il prodotto a essere un bene o un male, ma il modo in cui lo si integra in un percorso formativo. Percy Jackson può essere la soglia; l’Eschilo del Teatro Greco di Siracusa, il cammino. Ed è compito delle istituzioni culturali – come il nostro Centro – aprire quella soglia e accompagnare il pubblico su quel cammino.
“Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”. Quanto è importante questo principio per corroborare le missioni del Centro?
L’invito di Goethe a trasformare l’eredità in conquista è molto più che un principio pedagogico: è il nucleo stesso della missione che anima il nostro Centro. La cultura classica non si eredita per semplice trasmissione; si eredita nel momento in cui viene fatta propria attraverso un atto di comprensione e interpretazione. L’eredità, per non restare un simulacro, deve essere rifondata. Il nostro Centro nasce proprio da questa esigenza: evitare che il patrimonio classico diventi oggetto di culto inerte o di rimozione ideologica, e farne invece materia viva, materia da conquistare. In questo senso, l’esercizio della filologia non è un atto antiquario, ma un’operazione conoscitiva e civile. Ovidio, nelle Epistole dal Ponto (1, 5, 53-54) scriveva che …magis utile nil est / artibus his quae nil utilitatis habent (“Non c’è nulla di più utile di queste arti che non hanno alcuna utilità”): cioè non c’è nulla di più utile di ciò che non si misura con la logica immediata dell’utile.
Le cosiddette “arti inutili” – il pensiero teorico, la poesia, la musica, la grammatica, la retorica – sono in realtà le forme con cui una civiltà riflette su di sé, si interroga sul proprio linguaggio, sulle proprie leggi, sui propri conflitti. Esse sono l’infrastruttura invisibile della libertà. La School for Saving Classics ha precisamente questo compito: dimostrare che la classicità, e con essa la filologia, la filosofia, la letteratura, l’arte, la musica sono discipline critiche, in grado di sottrarre l’uomo alla schiavitù dell’istante, alla dittatura dell’efficienza, al pensiero senza memoria.
In un’epoca in cui tutto ciò che non produce profitto immediato viene bollato come superfluo, occorre ribadire che proprio le discipline “improduttive” sono quelle che garantiscono una cittadinanza culturale consapevole. Rivalutare le arti inutili significa restituire loro visibilità e dignità nel discorso pubblico. Significa riconoscere che leggere Seneca o Eschilo non è un lusso, ma un esercizio di lucidità. Significa che la cultura non serve a fare soldi, ma a non essere schiavi, come ci insegna la tradizione stoica.
L’evento di inaugurazione delle attività del Centro sarà dedicato al mito di Orfeo. Come mai questa scelta?
L’evento di apertura sarà idealmente e simbolicamente affidato alla figura di Orfeo, poeta e musico, che tenta di riportare alla luce la sua amata Euridice strappandola all’oblio dell’Ade. Abbiamo scelto questo mito perché esso incarna – in forma narrativa e archetipica – il senso stesso della nostra impresa: salvare ciò che potrebbe andare perduto, restituire parola a ciò che è condannato al silenzio, riportare in vita ciò che è stato relegato nell’ombra della morte. Come Orfeo con la sua lira, anche noi crediamo che la poesia e la musica abbiano la forza di strappare i morti all’Ade.
E in un’epoca in cui i classici rischiano di essere sepolti non tanto dal tempo, quanto dall’indifferenza o dall’utilitarismo, il gesto di Orfeo diventa per noi una metafora della filologia come “atto di resurrezione”. Orfeo non è solo un personaggio mitologico: è la figura liminare del poeta, del filologo, dell’interprete. È colui che scende nell’oscurità per salvare una voce, per non lasciarla svanire. È colui che volta le spalle all’oblio, pur sapendo che ogni gesto di salvezza comporta un rischio, una perdita, un limite. Ma anche un atto di fiducia.
Il nostro Centro nasce proprio con questa vocazione: non conservare i classici come entità da venerare, ma rimetterli in circolo, farli parlare nei linguaggi del presente. Per questo, durante la serata inaugurale – che si terrà presso la Scuola Superiore di Catania a settembre di quest’anno – alterneremo letture tratte da testi antichi e moderni (da Virgilio a Ovidio, da Poliziano a Bufalino) con esecuzioni musicali, in un dialogo tra arti che rispecchia la molteplicità delle forme in cui Orfeo è stato evocato, rivisitato, rifondato. Orfeo non è il passato: è il gesto continuo della tradizione, tesa fra memoria e rischio, perdita e rinascita. È ciò che la classicità rappresenta per noi: una forma di vita ancora possibile, purché si abbia il coraggio di ascoltarla.