Maria Arena, gli Uzeda e la filosofia del Do It Yourself

Intervista a Maria Arena, regista catanese autrice di alcune delle opere più interessanti del panorama indipendente italiano

Enrico Riccobene (foto del concerto di Filippo Distefano e degli Uzeda di Simone Cargnoni | Jump Cut)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Concerto ‘Come out for Uzeda’ organizzato dall’associazione Zo centro culture contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea il 18 marzo scorso (foto di Filippo Distefano)
Jump Cut scattate durante la registrazione dell’album degli Uzeda "Quocumque jeceris stabit" (foto di Simone Cargnoni)
Jump Cut scattate durante la registrazione dell’album degli Uzeda "Quocumque jeceris stabit" (foto di Simone Cargnoni)
Jump Cut scattate agli Uzeda durante il concerto del 30° all’Afrobar 2019 (foto di Simone Cargnoni)
Jump Cut scattate agli Uzeda durante il concerto del 30° all’Afrobar 2019 (foto di Simone Cargnoni)

Maria Arena, regista catanese autrice di alcune delle opere più interessanti del panorama indipendente italiano come Gesù è morto per i peccati degli altri (2014) e Il Terribile inganno (2021), attualmente sta lavorando alla produzione di un film sulla storica band etnea Uzeda, dal titolo emblematico UZEDA Do it yourself. Per questo film è in corso una campagna di raccolta fondi tramite crowdfunding, che è stata animata da un concerto live, Come Out for Uzeda, tenutosi il 18 Marzo organizzato dall’associazione Zō Centro Culture Contemporanee e dall’Associazione Musicale Etnea

Qui artisti del calibro di Colapesce, Roy Paci, Lautari, Stash Raiders, The Cockroaches e Clustersun hanno dato il loro contributo per promuovere la campagna. 

Enrico Riccobene ha incontrato Maria Arena ed è nata un’interessante discussione sulle modalità di produzione dal 'basso', il progetto e il lavoro della regista. 

Quali sono le prospettive di modalità di produzione dal basso per il cinema che voglia mantenersi davvero indipendente? 

Da docente ne parlo anche in classe, dato che per i ragazzi può essere particolarmente interessante, anche se non nego che è poi difficile creare la community necessaria a sostenere un crowdfunding. Ci si può trovare senza una produzione, anche non volendolo. Per questo film, ad esempio, l’ho cercata e non l’ho trovata, trattandosi di una band di musicisti ‘ultrasessantenni’ e quindi con meno attrattività per una produzione oggi nell’era dei talent. Devi avere 18 anni, altrimenti non ci crede nessuno. Anche laddove si riconosce lo spessore artistico, commercialmente non ci si crede. 

Il crowdfunding dimostra, invece, che ci sarebbe un pubblico. Magari non milioni di persone, ma comunque tante. Questa è la prospettiva più interessante: io stessa sono al secondo crowdfunding dopo quello per Il Terribile Inganno (2021). Era l’unica soluzione, ma a posteriori capisco che serve per due aspetti: il primo, ovviamente, è quello di arrivare all’obiettivo economico prefissato, raccogliere i soldi per finire il film. 

Ma c’è anche un aspetto di ‘marketinga cui io sinceramente non avevo prima mai pensato ma è qualcosa che sta succedendo: il film, prima ancora di essere completato, è già conosciuto; molti lo aspettano. Ed essendo indipendente, non avrebbe avuto questa risonanza se non ci fosse stato il crowdfunding, visto che di solito i giornali ne parlano poco. È diventato un film atteso e per questo motivo si sono mosse di conseguenza anche delle testate, attirate anche dall’evento. Si organizza qualcosa come un concerto, viene qualche musicista conosciuto, e così si crea un interesse attorno al film. 

Credo che sia una buona pratica, perché coinvolge in primis il pubblico che vuole vedere un film. Non parte da un target di riferimento, quello che cercano di solito i produttori senza trovarlo. Con il crowdfunding scopriamo che, anche dove non lo si vedeva, un target di riferimento c’è.

Uzeda Do It Your Self
 
Un’interessante alternativa al sistema del cinema industriale e commerciale che sta prendendo sempre più piede negli ultimi anni

Ma voglio dire che è anche rischioso. Sono coinvolte tante persone, tra cui deve crearsi una bella sinergia, e non sempre questo succede. Per fortuna nel nostro caso sta accadendo e ne sono molto contenta. 

È un’alternativa, sì. Quanto valida dipende sempre dal progetto, secondo me. È una modalità di raccolta fondi che non riguarda solo progetti cinematografici. 

Ci sono anche progetti sociali così realizzati, e funziona. Basta fare un giro sulla piattaforma che stiamo utilizzando per vedere tanti progetti del genere. Anche quando chiedono tanti soldi – molti più di quanti ne chiediamo noi – raggiungono l’obiettivo perché sono per delle cause importanti. 

Questo dimostra che la solita visione dall’alto, il pensare spettatrici e spettatori come targets di riferimento così stretti, prodotti di un algoritmo, non è l’unica possibile. L’algoritmo viene disatteso.

Questo dà nuova libertà agli autori, ma quali possono essere gli spazi di distribuzione per un film prodotto così?

C’è più libertà! Usciamo dall’algoritmo. Non sei più una macchina, un ingranaggio, né un tassello. Non sei una funzione matematica: sei un essere umano.

Per quanto riguarda gli spazi credo che dipenderà dal film. Di sicuro un distributore guarderà queste cose, l’hype generato. Per esempio, avevo già avuto dei contatti con un importante canale televisivo, prima di iniziare la campagna. 

Magari adesso, risentendoli, potrò fargli notare ciò che sta succedendo: cioè che c’è molta attenzione su questo film. E questo potrà aiutare un cambio di punto di vista anche da parte loro. Avrà certamente un’influenza. Vedi? Disattendiamo ‘l’alto’, ma poi andiamo a parlarci. 

Perché il film lo vogliamo distribuire. Di sicuro la distribuzione funzionerà sia grazie alle piattaforme, ma anche grazie al pubblico. Questo pubblico che si sta formando, che sta contribuendo, e che sta in qualche modo divulgando, sarà lo stesso che vedrà il film. Perché di certo vuole vederlo, d’altronde l’ha prodotto. C’ha creduto prima, e ora lo vuole vedere!

Nelle sue opere precedenti ha lavorato al confine fra fiction e non fiction: come si sposterà questo film che parte dalle premesse di un documentario?

Questo sarà più un ‘biopic’, se possiamo chiamarlo così. Segue proprio la storia di una band, ma lo fa utilizzando molte interviste. È ‘tematico’, più che ‘narrativo’. Il mio primo lungometraggio, Gesù è morto per i peccati degli altri, è narrativo direi. Il terribile inganno sposta già l’asse, è più ‘misto’. 

Questo sarà senz’altro più sbilanciato, con l’uso di interviste, sulla forma dell’osservazione della band. Seguo la band dal 2016. Ovviamente avrò alla fine centinaia di ore di girato. Anche per Il terribile inganno, avevo più di cento ore. Ma il film, alla fine, dura sempre 1 ora e 40. Arriva un momento, in fase di montaggio, in cui bisogna rinunciare a ‘pezzi di sé’, sacrificandoli per creare il ritmo migliore possibile. 

Ma c’è sempre in me un interesse per la narrazione. Qui c’è un po’ meno, forse. Dobbiamo ancora finirlo di montare, ma è di certo più difficile creare una narrazione forte come quella di Gesù è morto… quella ci sarà però nel prossimo film, che già ho iniziato a girare.

Come è nata l’idea di fare un film su una band storica e importante per Catania come gli Uzeda?

È il loro suono che mi ha spinta, prima di tutto. E il fatto che è conosciuto da molti, ma quello che voglio far conoscere è chi e cosa c’è dietro questo suono. Quello che c’è, principalmente, è il loro modo di ‘farlo’. Il loro aspetto sperimentale. Questa è una parola che ha un grande significato. Non significa ‘fai quello che vuoi’. Significa invece che hai un’idea, in questo caso musicale, e la persegui… e continui a perseguirla. E quando ti ritrovi in sala prove, non hai altre influenze: sei tu che stai suonando con i tuoi colleghi, la tua band. 

Tutto questo è strettamente connesso al loro suono… il loro essere genuini e originali. Roy Paci lo ha detto bene in un’intervista: «Gli Uzeda sono gli Uzeda». Non somigliano a nessuno, e nessuno può somigliare a loro. Hanno un suono ben preciso, unico. 

Io sono una che si innamora quando decide di fare un film. E mi sono innamorata della loro indipendenza, della loro libertà. Ma a ben vedere, questo è sempre ciò di cui mi sono sempre innamorata nei miei film: la libertà delle trans, in Gesù è morto; delle femministe, ne Il terribile inganno; e ora della libertà di una band come gli Uzeda. E anche per il prossimo, a cui accennavo prima, è ancora di una libertà di cui mi sono innamorata.

Il rapporto con la musica alternative sembra molto forte nella sua opera. “Gesù è morto per i peccati degli altri”, ad esempio, già dal titolo si dichiara ispirato da una canzone di Patti Smith…

E in quel film ci sono anche gli Uzeda… Nella scena di Sant’Agata ci sono gli Uzeda, mica il mandolino!

La musica influenza tantissimo il mio lavoro da regista. Devo dire che non ero prima una grande conoscitrice della discografia degli Uzeda. Li conoscevo superficialmente. Li avevo visti in concerto ma non c’era in fondo un legame preesistente. Ma questo lo credo un vantaggio. Ho fatto un film sui trans, senza esserlo. Un film sulle femministe, diventandola. Parto sempre da una ‘ignoranza’, parziale o totale, e la conoscenza che acquisisco nel percorso della realizzazione del film è ciò che condivido con il pubblico. Questo è il mio principio. 

Tornando alla musica, mi accompagna da sempre professionalmente (ho dedicato parte delle mie produzioni video sperimentali alla musica), ma anche nella vita. Avrei voluto essere una cantante, è qualcosa che mi appartiene. 

In Gesù è morto per i peccati degli altri ha raccontato Catania anche attraverso un lavoro sulla musica e sul suono. In questo film avviene qualcosa di speculare? 

Certo, Catania è presente. Ma sempre filtrata da loro, dalla band. Se nei precedenti film si andava o rimaneva in contesti ‘pubblici’, qua si rimane nei margini. Vediamo i loro luoghi, non i luoghi genericamente simbolo di Catania. Luoghi che comunque sono rappresentativi. Provengono da ambienti… potrei dire ‘sottoproletari’, soprattutto quelli del chitarrista Agostino Tilotta e della cantante Giovanna Cacciola. Quindi l’ambientazione è quella dei quartieri.

Si è formata nel cinema, ma anche in filosofia e per ogni film fa una ‘ricerca’ sia di relazioni che bibliografica. Per gli Uzeda come è andata?

Leggo un sacco di testi per prepararmi. Per il film sugli Uzeda è un po’ diverso. Non c’è molto di scritto al riguardo. Qualcuno aveva abbozzato una biografia, ma non è mai stata finita. Per cui ho i vari tasselli dei racconti per lo più verbali. Tutta una costruzione di testimonianze, che ovviamente non entrerà tutta nel film. È questo l’aspetto ‘testuale’ del film. Per la prima volta utilizzo poi immagini di repertorio per raccontare la storia trentennale della band, in alcuni casi sono molto interessanti.

Gli Uzeda sono stati gli alfieri di un movimento culturale e artistico che valeva a Catania, negli anni ‘90, l’epiteto di ‘Seattle d’Europa’. Il bilancio 30 anni dopo? Ci sono le premesse per tornare in futuro a un rigoglio simile?

Oggi è difficile. La gente oggi è sempre più orientata – o almeno, sembra – dai talent, da media commerciali, da come viene prodotta quella musica. Forse questo film oggi è necessario, perché sposta l’asse del concetto di ‘successo’, che non è per forza quello che ci vuole rifilare la televisione. A contare è piuttosto l’idea di un ‘successo personale’, in quello che stai facendo. Perseguire quello che si fa, raggiungere degli obiettivi, e continuare a fare della musica ‘tua’, senza compromessi. È questo il vero successo. 

È importante far passare questo messaggio ai giovani. Anche se possono non essere interessati a questo tipo di musica. Non c’entra tanto il genere musicale. È l’attitudine, come quella degli Uzeda, che oggi sembra quasi scomparsa perché ci hanno riempito la testa di scelte da fare per poter vendere. 

È vero, ci sono dei compromessi da fare. Ma il concetto base della filosofia degli Uzeda, e quindi anche del film, è proprio questo: se tu lavori costantemente e ‘cocciutamente’ a quello che ti interessa, per quello che senti, alla fine avrai il tuo successo. Magari gli Uzeda non sono la band più famosa del mondo, ma hanno una realtà solida, e che merita anche di essere conosciuta di più. 

Per quel che riguarda Catania, lo ha dimostrato il concerto. Abbiamo avuto diversi feedback, persone che ci hanno detto che è stato un evento incredibile. Eppure non mancano i concerti a Catania. 

Ma questo comunica una forte energia, perché la musica degli Uzeda – a parte per il discorso di prima, del perseguire i propri sogni – funziona anche sulla base delle relazioni che si costruiscono: in primis, la relazione dei membri del gruppo tra loro, è una band molto coesa, c’è una compattezza che non fa prevalere il ruolo di nessuno… non c’è un vero leader. Ma queste stesse relazioni le riproducono anche nella community degli indipendenti. 

Sono persone che si conoscono, fanno i concerti insieme, si incontrano. Tutto questo, si è percepito molto al Come Out for Uzeda del 18 Marzo. La gente ha percepito questa energia. È difficile spiegarlo a parole. E tutti gli artisti che si alternavano sul palco richiamavano queste relazioni. Quindi non è il solo che ce la fa e ha successo, e basta; ma il solo che ce la fa e ha successo se riesce anche a costruire delle relazioni.

Jump Cut scattate agli Uzeda durante il concerto del 30° all’Afrobar 2019 (foto di Simone Cargnoni)

Jump Cut scattate agli Uzeda durante il concerto del 30° all’Afrobar 2019 (foto di Simone Cargnoni)

Ha iniziato e sviluppato la sua carriera con una produzione sperimentale fra cinema, video, installazioni, teatro e progetti audiovisivi di tipo sociale. E in futuro?

Intanto sì, è vero. Ho iniziato come video-artista. Una delle prime VJ italiane, anche se non me lo riconosce nessuno [ride]. Lavoravo con i super8. Attualmente, comunque, lo stile documentario mi ha totalmente presa. Ricordo che a vent’anni ebbi una crisi. Non avevo affatto le idee chiare. Non sapevo se avrei fatto cinema. Ma sapevo che avrei lavorato con le immagini in movimento, quello sì. 

Quindi ho iniziato da un lavoro quasi artigianale  sulle immagini in movimento, costruite per i live, intervenendo anche fisicamente sulla pellicola ma pian piano ho iniziato ad avvicinarmi alla realtà. Lavorare sull’immagine in sé era qualcosa di astratto, poco concreto. Invece adesso mi interessa la conoscenza del mondo. Per questo per ora continuerò a fare documentari. Ho delle idee per film di finzione, ma non so se le realizzerò. Mi interessano attualmente i documentari che si trasformano comunque in narrazione.

Per il prossimo film, dal 2018 seguo una persona di una famiglia semi-nomade nel Sahara marocchino. Da noi li chiamiamo berberi, ma in realtà loro si chiamano Amazigh. La popolazione autoctona del Magreb, prima che arrivassero gli arabi. E, giusto per chiudere il cerchio, Amazigh significa proprio ‘uomo libero’.

Uno degli episodi della loro mitologia, che racconterò nel film, è la storia di questa donna – già per questo è straordinario – che dal Marocco si spostò in Mauritania, e lì fu la matriarca dei Tuareg. Ma questa donna era una Amazigh, una berbera. Vorrei riuscire a trovare un testo epico che ne parla da inserire. Quello che colpisce, è che racconto un’altra prospettiva: una persona che non è attratta dal nostro occidente. Una storia di cui, come dicevo, mi sono innamorata. 

Per ora sto viaggiando da sola per preparare il film. Andare da sola mi serve. Questa è la mia metodologia. Ho bisogno di libertà assoluta nelle fasi iniziali. Ho già un volo per il deserto all’indomani della chiusura del crowdfunding

Non sono mai riuscita, fino ad ora, a finire un film prima di incominciarne un altro. Se mi innamoro di una storia, sento subito l’urgenza di iniziarla a seguire. E per seguire un film impiego un tempo molto lungo ed è qualcosa che mi piace un sacco. Devo entrare a fondo nella storia che intendo raccontare. Già la produzione di Uzeda si è intrecciata con quella de Il terribile inganno, e ora con questo nuovo progetto.

E poi, in qualche modo, i suoi film non sono mai ‘finiti’, cioè conclusi e messi da parte. Continua a seguirli anche dopo la loro uscita...

Sì, è vero. Con le proiezioni che seguo personalmente da anni, soprattutto per Gesù è morto di cui proseguono ancora oggi dal 2014 (ce ne sarà una anche in Francia prossimamente). Sull’argomento del film sono anche tornata con la webserie partecipata San Berillo Web Serie Doc.

Mi chiedono se tornerò anche su Il terribile inganno. Ma quello continua a influenzarmi in un altro modo. Quello che ho imparato sul femminismo con quel film me lo porto dentro soprattutto nella didattica. Mi ha cambiata. Non una di meno  è stata per me una scuola, un apprendistato, e lo rimane. Quando mi domandano come sono attivista oggi, rispondo così. Portando e presentando in giro il film, e testimoniando quotidianamente con la trasformazione che hanno avuto su di me. 

È importante per me questo: i miei film non sono una serie di capitoli, in successione temporale ‘teleologica’. Hanno una successione parallela, quasi da ‘multiverso’.

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