Pane Nostrum in Mare Nostrum. Il pane e le civiltà mediterranee

In occasione del Festival Mediterraneo di Musica Sacra, un momento di confronto con Riccardo Ragusa, musicista e docente, e Paolo Apolito, tra i massimi studiosi di antropologia religiosa in Italia, sul valore simbolico del cibo nelle civiltà del Mediterraneo

Gabriele Cristiano Crisci (foto di Micaela Rodriguez)

Pane e mare costituiscono degli archetipi indissolubili, le fondamenta materiali e simboliche delle civiltà di ogni tempo, soprattutto di quelle sorte sulle sponde del mar Mediterraneo. Sin dall’antichità, infatti, il cibo ha ricoperto un ruolo centrale non solo – naturalmente – come fonte di nutrimento e sostentamento, ma anche come cifra imprescindibile nel delineare e definire l’identità collettiva di un preciso gruppo sociale.

Questo tema è stato accennato e discusso in occasione della prima edizione del Festival Mediterraneo di Musica Sacra, in cui la visione del sacro ha acquisito margini più flessibili e inclusivi, aprendosi a nuovi orizzonti. Un sacro polifonico, intrinsecamente plurale, senza barriere invalicabili tra ritualità religiose e professioni di fede.

Dopo i saluti di Maria Piana, vicaria dell’Istituto Omnicomprensivo “Pestalozzi”, e di Giuseppe Sanfratello, etnomusicologo di Unict e direttore artistico del Festival, è stato padre Francesco La Vecchia, delegato dell’Arcivescovo in rappresentanza della Diocesi etnea, a ricordare come sia necessario oggi «recuperare la dimensione umana tramite i valori del rispetto e dell’ascolto reciproci».

In foto da sinistra padre Francesco La Vecchia e il prof. Giuseppe Sanfratello

In foto da sinistra padre Francesco La Vecchia e il prof. Giuseppe Sanfratello

A iniziare il dialogo è Riccardo Ragusa – docente dell’Istituto “Pestalozzi”, compositore e autore di numerose opere discografiche – il quale ha segnalato la presenza di «oltre 29 varietà di grano presenti in Sicilia», tra cui il timilia, coltivato ancora oggi soprattutto nell’entroterra siciliano.

Il timilia negli Iblei è ancora noto con l’antico nome di tumminìa (o anche come tremelia) ed è un particolare grano antico duro e coltivato in Sicilia già intorno al XIV secolo come testimoniano alcune cronache locali dell’epoca, nonostante le prime tracce siano rinvenibili già in epoca greca, conosciuto col nome trimeniaios (τριμηναῖος).

Diffusissimo in buona parte dell’isola nei secoli successivi, divenne centrale nella dieta del popolo siciliano, al tal punto che fu menzionato anche da Goethe nel suo Viaggio in Italia, dove viene definito «il dono di Cerere per la Sicilia».

«La particolarità di questo grano – ha ricordato Ragusa – è il suo ciclo molto breve: in genere, in pochi mesi può essere già raccolto, seppur in poche quantità». La timilia rappresenta una concreta opportunità sia dal punto di vista economico che ambientale per il nostro territorio, visto che «in Sicilia più di un milione di ettari di terra vengono lasciati incolti».  Il suo essere un grano rustico, resistente alla siccità e coltivabile con tecniche a basso impatto, permette di porci in un’ottica di agricoltura sostenibile e a chilometro zero.

Sostenere la coltivazione del grano timilia significa quindi contribuire alla valorizzazione del territorio, ad un glocalismo rivolto alla salvaguardia della biodiversità e alla rilocalizzazione delle filiere alimentari, con ricadute positive in termini di occupazione, turismo culturale e identità culturale, cercando soprattutto di «chiudere la filiera: dalla semina del grano fino al prodotto finale», ha evidenziato Riccardo Ragusa.

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In foto da sinistra i docenti Giuseppe Sanfratello e Riccardo Ragusa

A concludere l’incontro è stato Paolo Apolito, già ordinario di antropologia culturale all'Università Roma Tre e all'Università di Salerno e tra i massimi esperti di antropologia religiosa in Italia. «L’essere umano è composto da due elementi, quello naturale – ovvero biologico – e quello culturale: da qui, l’urgenza per l’uomo di interrogarsi sul significato della propria esistenza e sul proprio senso».

Questa la riflessione da cui ha preso le mosse il professor Apolito, che ha sottolineato l’importanza del cibo negli studi antropologici: un elemento universale e, al contempo, culturalmente specifico dell’esperienza umana ed «oggetto di una trasformazione adoperata dall’uomo».

Attraverso l’alimentazione, le società esprimono identità, strutturano relazioni sociali, simbolizzano valori religiosi e morali: basti pensare che nell'Iliade (XIII, 322) omerica, per indicare il consesso degli uomini civili, viene usata proprio l'espressione «mangiatori di grano» (σιτοφάγοι), che ci riporta all’argomento centrale dell’incontro.

Il pane assume un ruolo centrale e profondamente simbolico nelle religioni abramitiche, assumendo significati che spaziano dal nutrimento materiale alla rivelazione divina, dalla comunione rituale alla memoria storica: il pane è segno di vita, dono divino, e spesso simbolo di comunione e solidarietà.

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In foto Paolo Apolito

A tal proposito, il professore Apolito ha preso in esame un testo di sant’Agostino (Sermo 229, 1) in cui l’Ipponate offre una riflessione profonda sulla natura del sacramento eucaristico, creando uno slittamento semantico per cui «il pane diviene metafora del corpo di Cristo».

Agostino pone l’accento su una teologia del segno (signum), in cui l’elemento materiale rimanda a una realtà trascendente e spirituale, che si accoglie solo attraverso la fede. In questo modo, l’Eucaristia diventa un luogo di «incontro tra una realtà visibile e una invisibile», ha spiegato Paolo Apolito. Inoltre, come il pane è prodotto da molti chicchi di grano macinati e uniti in un’unica forma, allo stesso modo i fedeli, pur essendo molti, diventano un solo corpo in Cristo: l’unità della comunità dei fedeli (ἐκκλησία, da cui il termine “Chiesa”) come riflesso di un’unità identitaria.

«Il cibo è anche uno strumento adottato dalle civiltà – ha continuato Apolito, in conclusione al suo intervento – per distinguersi l’una dall’altra». Si ricordi, ad esempio, il celebre incidente di Antiochia narrato da Paolo nella Lettera ai Galati, che rappresenta uno dei momenti più significativi del conflitto tra la tradizione giudaica e la neonata identità cristiana: al centro della controversia vi era l’osservanza o meno delle regole di purità rituale e alimentare di matrice giudaica che segnarono la distinzione tra cristiani e comunità ebraiche. Le pratiche alimentari diventano così una chiave per comprendere i sistemi culturali e i processi storici di ogni civiltà.

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