“Quel che resta”, appunti per un documentario sulla ‘restanza’

Un appuntamento intermediale al Cut tra performance poetiche e musicali alternate a proiezioni tratte dal progetto di Filippo Mauceri 

Giuseppe Sanfratello

Volti, voci e suoni si sono avvicendati sul palco del Centro Universitario Teatrale tra proiezioni audiovisive ed esecuzioni live di canti e musiche popolari. 

Ad aprire la serata Biagio Guerrera, direttore artistico dell’Associazione Musicale Etnea, che ha introdotto l’evento (co-organizzato in collaborazione con l’Università di Catania), presentando Quel che resta. A proposito della restanza, il progetto fatto di ritratti e interviste a firma del regista e documentarista Filippo Mauceri, originario di Agira, ma vissuto al ‘nord’ sin dalla prima infanzia; per questo motivo, egli stesso afferma che sente di avere «due anime, una un po’ al sud, l’altra un po’ nord».

Chi è abituato al format documentaristico può subito notare che quanto è stato proiettato è un quasi­-documentario, in quanto non si tratta di un vero e proprio montaggio, ossia fatto di tagli, di selezioni, di scelte, di rinunce, ma di un lavoro ancora in itinere,fatto di interviste integrali, al fine di presentare al pubblico «una visione più rilassata, più profonda», che nel formato standard di un documentario invece viene spesso sacrificata, a detta dello stesso regista.

Prima di passare alla visione vera e propria del video, Mauceri cita un testo scritto che ha ispirato questo suo progetto. Si tratta di un saggio scritto dall’antropologo Vito Teti, La restanza (Einaudi, 2022), di cui vengono lette le parole offerte al lettore sin dal frontespizio, e che qui riportiamo:

Partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente.

 

Filippo Mauceri e Biagio Guerrera

Filippo Mauceri e Biagio Guerrera

La ‘restanza’ d’altronde è un tema caro a chi si occupa del Sud, delle sue storie, dei suoi drammi, come lo spopolamento, la disoccupazione, l’emigrazione e Mauceri sostiene che il suo paese natìo, Agira, ha conosciuto queste sciagure, come molte altre località siciliane.

Il film si apre con «'Ndo vadduni da Scammacca», l’incipit del celebre brano di Franco Battiato, seguito da Stranizza d’amuri, e con alcune intense riprese di Agira, girate da una posizione da cui si possono ammirare dall’alto le valli del Salso e del Simeto. Sin da subito è possibile avvertite la ‘lentezza’ del film, che è voluta e legata simbolicamente al ‘ritmo’ della terra, dei luoghi e delle storie che il regista ha deciso di raccontare.

Il primo capitolo è intitolato “La lingua”. In esso, l’autore del film si intrattiene in una conversazione con Biagio Guerrera davanti a due calici di vino bianco, forse un fresco chardonnay, con alle spalle un panorama mozzafiato. 

I due parlano principalmente dell’economia e della cultura siciliana, dell’assenza apparente di un futuro, di quel senso di ‘immobilità’ che spesso attanaglia (o ha attanagliato) molte delle esistenze che sono rimaste o sono passate da questa terra. Mauceri chiede a Guerrera, «se io ti dicessi restanza, a te [questa parola] cosa evoca, cosa suscita?»; il secondo risponde: «è una parola che ho conosciuto da poco, che evoca il ‘restare’, quasi in opposizione con la spartenza [un concetto espresso in molti canti della tradizione siciliana]. 

I canti della spartenza sono canti molto diffusi in Sicilia che esprimono il dolore per un amore lontano, in genere per l’uomo che parte [o che partiva] e che va lontano per lavoro e la donna lo piange a causa della lontananza». 

Guerrera racconta del suo periodo di studi a Roma e del suo rientro in Sicilia, dove da anni si occupa energicamente di promuovere la cultura musicale siciliana (e non solo) grazie all’attività prolifica dell’AME.

Puccio Castrogiovanni e Biagio Guerrera

Puccio Castrogiovanni e Biagio Guerrera

Tra un capitolo e l’altro del film, il pubblico presente al CUT assiste a delle esecuzioni live, a partire dalla prima: Biagio Guerrera legge e intona alcune delle sue poesie e poi canta, accompagnato da Puccio Castrogiovanni alla chitarra e, poi, al marranzano.

La proiezione prosegue con il capitolo “L’amore”, che ha per protagonisti Eleonora Bordonaro e il suo compagno, di vita e di musica, Puccio Castrogiovanni, entrambi musicisti e paladini della tradizione siciliana

Questa porzione del film si apre con una bossa nova alla siciliana eseguita dai due artisti seguita da una lunga intervista sulla loro esperienza della restanza

Il loro legame è fondato sulla cosa che gli «piace di più nell’universo: la musica, quella cosa – a detta di Bordonaro – grazie alla quale non ci annoieremo mai, perché avremo sempre questa cosa in comune, che fa felici entrambi».

 È un amore condiviso per la musica che in fondo li ‘trattiene’, che dà loro la possibilità di vivere la restanza attraverso l’attività svolta nel territorio etneo, che li porta anche in giro per il mondo, ma che li riporta sempre ‘alla base’, a casa. 

Raccontando un po’ delle sue avventure artistiche locali, Puccio Castrogiovanni afferma che non è sempre vero che «cu nesci, arrinesci»: può esserlo anche il suo contrario, «curesta, arrinesci», se si hanno la volontà, le risorse e le potenzialità per re-inventarsi senza arrendersi mai, in un mondo che cambia continuamente. 

I due musicisti cuntano e cantano un amore appassionato e ‘irreversibile’ per la loro Sicilia, che tuttavia è anche una Terra ca nun senti, come ricordato nel brano di Rosa Balistreri, eseguito dal vivo (Eleonora Bordonaro alla voce, Puccio Castrogiovanni alla chitarra) subito dopo la conclusione dell’intervista. A seguire, i due intonano un blues dal titolo A Muscatedda, su testo di Biagio Guerrera, e altri brani dal loro repertorio, a suon di tamburo a cornice e di marranzano.

Puccio Castrogiovanni e Eleonora Bordonaro

Puccio Castrogiovanni e Eleonora Bordonaro

Il penultimo capitolo del quasi-documentario presenta la figura di Saro ‘Nievski’ Urzì, proprietario della storica trattoria e pub della scalinata Alessi, appunto il ‘Nievski’, che da trentacinque anni è luogo simbolo in cui catanesi (e non solo) si ritrovano per consumare un pasto, bere un drink e godere con entusiasmo dello ‘stare insieme’, della compagnia. 

Una genuina testimonianza di restanza

Saro racconta della sua esperienza lavorativa all’estero, in Germania, nei primissimi anni ’80 del secolo scorso. Non è stata «un granché entusiasmante», pertanto dopo pochi mesi ha deciso di rientrare, prima nel ‘nord’ della Penisola, e poi scendendo sempre più ‘verso sud’, fino ad approdare nuovamente a Catania. 

Da allora, il Nievski diventa un punto di riferimento, fondato sui valori della socialità e dell’accoglienza

E di punti di riferimento ha sempre bisogno una città come Catania; Saro lamenta, a esempio, la trasformazione che ha subìto la storica ‘pescheria’, da cuore pulsante della catanesità a mera attrazione per l’odierno turismo del ‘mordi e fuggi’

Questi fenomeni, secondo il libero pensatore del Nievski, causano un irrimediabile sgretolamento di quel ‘collante’ che molti luoghi della Catania di una volta rappresentavano, e di conseguenza la sua passione – così come quella di molti catanesi – si affievolisce davanti a un tale stato di cose che, a fasi alterne, hanno fatto della Sicilia «una terra benedetta e maledetta allo stesso tempo». Anche il Nievski nel corso degli anni ha registrato un flusso altalenante di frequentatori: talvolta gli ‘amici’ storici del locale sono stati costretti ad andare a lavorare al nord, alcuni sono tornati, altri sono rimasti, altri ancora se ne sono aggiunti. 

E in questo modo, grazie a questo ‘punto di riferimento’ che è stato (ed è) il suo locale, Saro ha potuto assistere nel tempo al cambiare del volto di questa città, in cui la restanza sembra a tratti possibile. Dopo la visione di questo capitolo, Eleonora – accompagnata alla chitarra e al marranzano da Puccio – canta due brani dal suo disco Moviti ferma (2020); un primo testo in dialetto gallo-italico di San Fratello (ME) e un altro scritto proprio da Saro ‘Nievski’.

Puccio Castrogiovanni e Eleonora Bordonaro

Puccio Castrogiovanni e Eleonora Bordonaro

La serata si chiude con la visione dell’ultimo capitolo del progetto di Mauceri, che vede come protagonista il musicista lentinese Alfio Antico, « ‘u picuraru’ diventato il dio del tamburo» (Giuseppe Attardi, Alfio Antico. Il dio tamburo, Roma, Lit edizioni, 2020). 

Antico è un cantore di una Sicilia scomparsa, uno sciamano che suona i suoi tamburi a cornice da quel giorno in cui la nonna materna con quelle vibrazioni gli insegnò a scacciare «i mostri della solitudine e della paura», a resistere all’asprezza di un’infanzia povera. 

Artigiano del suono, Alfio Antico, pur vivendo a Ferrara con la moglie, non dimentica il tempo delle transumanze vissute nelle campagne della Sicilia orientale, nella cui terra tiene ancora salde e profonde le sue radici. Infatti, anche se con i suoi tamburi ha girato il mondo, lavorando nei teatri al fianco di Peppe Barra (tra gli altri), e suonando con grandi musicisti italiani (Arbore, Eugenio Bennato, Branduardi, Carmen Consoli, Dalla, De André), Alfio Antico ritorna continuamente a Lentini, perché il suo legame con la sua terra è pregno di restanza ed è fatto di «verità», come dice egli stesso, ossia di un amore ‘vero’, radicale, profondo, che resta nel tempo. 

I protagonisti di questo quasi-documentario hanno raccontato un po’ delle loro storie, ma soprattutto del loro rapporto con i luoghi, fisici e simbolici, dai quali – in modi diversi – sono dovuti partire a più riprese, per poi farvi ritorno, per restarci

Una scelta singolare, ma efficace, quindi, quella di Filippo Mauceri, di svelare al pubblico del CUT gli ‘appunti’ del suo progetto, non ancora nella sua versione definitiva e trasposto in forma di spettacolo intermediale, per condividere alcuni dei suoi incontri avvenuti nel corso delle riprese e raccontare così il valore di ‘quel che resta’.

Alfio Antico

Alfio Antico