Così lontane, così vicine

Serena Uccello, vice caposervizio "Il Sole 24 Ore", è intervenuta a Unict sul tema dell'Empowerment femminile e parità di genere per il quarto appuntamento con le masterclass di giornalismo di Taobuk

Chiara Racalbuto

Questa è la storia di due donne: così lontane, così vicine.

Una abita in un Paese lungo e stretto nel cuore del Pacifico, il più isolato al mondo, con paesaggi naturali che sembrano usciti da una favola

Si chiama Jacinda Kate Laurell Ardern e ha 43 anni. Jacinda, politica, è madre di una bambina, Neve Te Aroha. Nel 2017 diventa il 40° Primo Ministro della Nuova Zelanda. Nel 2023, rassegna le proprie dimissioni: «Sono umana. Ho finito le energie», confesserà alla stampa.

L’altra viene dal nord, da uno Stato racchiuso tra il mar Baltico e il Circolo Polare Artico, dove in estate le notti sono bianche e il sole non tramonta mai.

È Sanna Mirella Marin, 37 anni. Anche lei politica, anche lei madre di una bambina, Emma Amalia. 

Nel 2019 diventa il più giovane capo di governo della storia della Finlandia. Nel 2023, decide di rinunciare all’incarico: «devo ammettere che la mia resistenza è stata messa alla prova in questi anni». 

Un anno prima, nel 2022, un video in cui ballava in una festa privata finì online, scatenando polemiche e costringendola alle scuse. Qualche mese dopo, un altro “scandalo”: in rete circolano foto di due donne immortalate in pose sconvenienti all’interno della sua residenza, nel corso di un altro party. 

Sanna non ce la fa più. «Sono umana», dichiarerà anche lei, rivendicando il diritto a una vita privata che, nonostante le feste, nonostante i balli, non ha mai messo in discussione la sua abilità di guidare la nazione.

Dalla storia delle due donne, madri, politiche ha preso spunto Serena Uccello, vice caposervizio del Sole24 ore, per l’incontro dal titolo Empowerment femminile e parità di genere quarta e ultima masterclass organizzata da Taobuk in collaborazione con l’Università di Catania, che si è svolta il 25 maggio nell’auditorium dell’ex Chiesa della Purità (Dipartimento di Giurisprudenza).

L’incontro, coordinato da Mariagrazia Militello, docente di Diritto Antidiscriminatorio, è stato introdotto da Salvatore Zappalà, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, e da Alfio Bonaccorso, direttore di Taobuk.

Taobuk, auditorium "Purità", un momento dell'incontro

Auditorium dell'ex Chiesa della "Purità", un momento dell'incontro 

«Amo la lettura, la scrittura, la narrazione, ma prima ancora fare la madre», esordisce la giornalista, esperta di economia del lavoro, autrice di diversi saggi (l’ultimo, “Senza Sbarre”, edito da Einaudi). «Lo dico perché oggi ricordare questo per noi donne è quasi un capovolgimento opposto. Se vogliamo apparire credibili, risolte professionalmente, strutturate, preparate, colte, dobbiamo omettere questo “dettaglio”. E invece no: per me la maternità è un elemento fondamentale non solo del mio essere donna, ma proprio del mio essere persona».

La Uccello spiega così la scelta di iniziare il suo intervento a partire dalla storia di Jacinda e Sanna. «Ho pensato che queste due storie raccontassero un modo di gestire il potere molto diverso da come lo gestiscono gli uomini – racconta -. Il motivo è che di queste storie se ne è parlato tanto: se qualsiasi altro primo ministro uomo avesse detto “smetto perché voglio occuparmi della mia famiglia”, ci sarebbe stato solo qualche titolo sui giornali, poi la storia si sarebbe spenta. Perché invece due donne che rinunciano all’incarico di premier ci stupiscono?»

Eppure donne e uomini sono umani allo stesso modo, con fragilità, debolezze, imperfezioni, ma diverso è il modo in cui questa umanità viene percepita e “perdonata”. 

La donna, soprattutto una donna di potere, viene guardata, osservata, finisce sui giornali in modo diverso. Nel caso della Marin, la Uccello ricorda che «tutti si sono chiesti se quei video e quelle foto fossero istituzionali, dignitosi». «Io non credo di avere mai visto in prima pagina foto simili di primi ministri uomini, eppure la classe politica italiana ed estera sarebbe piena di casi del genere - ha aggiunto -. Se non ci fosse stata Monica Lewinsky, ad esempio, noi non avremmo mai saputo cosa succedeva nella Sala ovale della Casa Bianca».

La stessa disparità si registra nei confronti della genitorialità. «Quando anni fa rimasi incinta, a lavoro mi chiesero: “E ora come fai?” - racconta -. A un uomo che comunica l’arrivo di un figlio nessuno fa mai questa domanda, alle donne invece sì. A molte donne, inoltre, viene anche imposto di dover scegliere: sei rimasta incinta, quindi non puoi più “fare”, perciò ti demansioniamo, ti spostiamo o, nei casi più estremi, ti licenziamo».

Cosa fare, quindi? Come si può intervenire per accelerare quel processo di emancipazione e uguaglianza iniziato con le lotte femministe dei secoli precedenti, in cui donne ancora vittime di società fortemente patriarcali hanno aperto la strada alle loro “eredi” con coraggio e determinazione? Qual è la vera rivoluzione?

«Io penso che la vera rivoluzione, il vero obiettivo, non sia quello di mettere le donne nelle condizioni di non scegliere tra lavoro e vita, ma mettere tutti gli individui, uomini e donne, nelle condizioni di non scegliere tra lavoro e vita» ha aggiunto. 

Il punto da raggiungere è che «né uomini né donne debbano scegliere tra lavoro e vita, che si formi e si diffonda una cultura in cui la vita non diventi un disvalore rispetto alla percezione di quello che noi siamo come professionisti». 

La vera parità, dunque, è arrivare a non essere etichettati negativamente se scegliamo la strada dell’equilibrio, e questo vale per entrambi i generi.

Taobuk, auditorium "Purità", un momento dell'incontro

 Auditorium dell'ex Chiesa della "Purità", un momento dell'intervento di Serena Uccello

Ma cosa succede in Italia? I numeri fotografano una situazione non incoraggiante, che dimostra quanta strada ci sia ancora da fare.

Il Global Gender Gap Index, che misura il divario di genere in 146 Paesi in termini di partecipazione economica e politica, salute e livello di istruzione, vede l’Italia al 63° posto su 146 paesi e al 33° per numero di ministri donne: «se consideriamo quanti sono nel mondo i Paesi con un sistema democratico, e se dietro di noi ci sono solo Paesi con situazioni sociali non paragonabili alla nostra, questi dati non sono positivi».

In Italia, la parola empowerment non ha una traduzione specifica. È un termine complesso, intraducibile, con sfumature differenti in base ai contesti sociali e territoriali a cui si applica: «Empowerment assume un significato diverso a seconda delle aree a cui si fa riferimento: in Italia, Germania, Francia significa altro rispetto ad alcune zone del mondo in cui vuol dire non raggiungere un posto di prestigio o di potere, ma prima ancora poter accedere all’istruzione, all’emancipazione, alla libertà». 

Ci sono vari modi, anzi vari mondi di intendere l’empowerment: «uno è quello della lotta alla violenza, non solo fisica ma anche psicologica ed economica», spiega la giornalista. «Ci sono zone del mondo in cui per le donne l’empowerment significa “libertà”. La violenza è diffusa non solo in contesti lontani, ma anche dalle nostre parti, come vediamo dai tanti casi di femminicidio riportati dalla cronaca».

In politica e in ambito aziendale, l’empowerment si manifesta con l’applicazione delle cosiddette quote rosa, in azienda e in politica: «vanno bene in teoria, nella pratica no. Sono fondamentali per forzare, ma sono pensate secondo una logica maschile». 

Auditorium dell'ex Chiesa della "Purità", un momento dell'incontro

Auditorium dell'ex Chiesa della "Purità", un momento dell'intervento di Salvatore Zappalà

Secondo la Uccello, le quote rosa, da punto di partenza per l’emancipazione femminile, finiscono per essere uno strumento di cooptazione femminile da parte degli uomini: «Sono i maschi, ancora una volta, date le percentuali (20- 26% di donne nei Cda e ai vertici politici e aziendali), che prendono le decisioni, decidono chi e quante donne devono prendere il potere. Non vengono scelte le donne più meritevoli, ma quelle più capaci di aderire a questo modello di cooptazione: ad esempio, paradossalmente, quelle che ricoprono ruoli importanti in un’associazione femminile che difende le donne, associazione che magari diventa una lobby che interessa agli uomini».

Ecco spiegato, forse, perché Sanna Marin e Jacinda Arden si sono dimesse. «Perché loro appartengono a mondi culturali in questo sistema della cooptazione è meno stringente che da noi, in cui l’accesso alla specializzazione, alla carriera è molto più libero - spiega -. Si sono prese la libertà di essere loro stesse, di rifiutare un sistema tutto maschile».

La Uccello prosegue il suo incontro citando la class action contro la Goldman Sachs, nata dall’iniziativa di Cristina Chen-Oster, dirigente della banca dal 1997 al 2005, a cui fa causa nel 2010 perché consentirebbe ai propri manager di penalizzare le donne, in termini di stipendio e di carriera. Negli anni, oltre alla Chen-Oster ricorreranno altre 1.800 donne.

Problemi simili anche per il colosso Google, costretto a pagare 118 milioni di dollari a 15.500 donne per risolvere una causa intentata da quattro dipendenti, dal 2021 divenuta una class action. Secondo le accuse, la società le avrebbe pagate 17.000 dollari in meno rispetto ai propri colleghi maschi. 

I due casi sono indice di come la legge stia forzando le aziende a compiere interventi su diritti fondamentali e pari opportunità, come imposto anche dall’Europa.

Tutte le aziende, in base a direttive europee, devono adempiere a principi di uguaglianza e pari opportunità e poi comunicarli in modo trasparente. Le aziende che non rispettano tali principi rischiano di avere un accesso al credito più oneroso, una limitazione nell’accesso ad appalti pubblici, una scarsa credibilità nei confronti di investitori e creditori. Rischiano, insomma, di essere escluse dal mercato.

Auditorium dell'ex Chiesa della "Purità", un momento dell'intervento di Maria Grazia Militello

Auditorium dell'ex Chiesa della "Purità", un momento dell'intervento di Mariagrazia Militello

Sempre per quanto riguarda le aziende, inoltre, è stato emanato il Sistema di certificazione della parità di genere, un intervento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che vuole favorire l’adozione di politiche per la parità di genere e per l’empowerment femminile a livello aziendale e quindi migliorare la possibilità, per le donne, di accedere al mercato del lavoro, di leadership e di armonizzazione dei tempi vita.

«171 grandi aziende hanno ottenuto questa certificazione; il problema è che in Italia le aziende in gran parte sono medio – piccole, spesso a conduzione familiare, e questa certificazione è praticamente assente», chiarisce la Uccello.

Nonostante gli interventi legislativi esiste ancora un divario tra i due sessi in ambito lavorativo, non solo sul piano economico. «Durante la pandemia - aggiunge - a soffrire di più sono state le donne: sia perché avevano i figli a casa e non potevano lavorare, dovendo magari rinunciare al lavoro, sia perché dovevano lavorare in smart working e contemporaneamente seguire i figli».

I differenziali di occupazione maschile e femminile, inoltre, sono ancora sproporzionati. «Gli ultimi dati mostrano che, per quanto riguarda l’occupazione femminile, siamo ancora fermi al 50,5%, con il sud più penalizzato rispetto al nord» precisa.

Serena Uccello ha concluso il suo intervento con una significativa citazione del giornalista Claudio Sabelli Fioretti: «Le donne sono meglio degli uomini? E se sono meglio, perché ce ne sono così poche ai vertici? Sono discriminate? O forse non sono portate? […] Io faccio parte di quella generazione che sosteneva che se le donne avessero potuto andare al potere avrebbero mostrato agli uomini che si poteva governare con maggior senso di giustizia e di umanità […]. Non posso che dichiararmi deluso. […] E so anche il perché. Perché le donne raggiungono posti di reale potere solo quando vengono cooptate dagli uomini. Che le selezionano sulla base della loro somiglianza agli uomini. […] È triste ammetterlo: le donne che comandano sono uomini».

La storia di Jacinda e Sanna ci dimostra questo: solo le donne che rifuggono il sistema di cooptazione maschile sono veramente libere.