Rete e cultura contro la violenza di genere

Al Disum l’iniziativa nata dagli studenti per approfondire gli strumenti di prevenzione su questo triste fenomeno sociale

Martina Seminara

Con l’auspicio che sia solo il primo di molti incontri futuri su un tema urgente e vitale, come ci ricordano gli ultimi clamorosi fatti di cronaca, Marina Paino, direttrice del Dipartimento di Scienze Umanistiche, ha aperto i lavori del convegno dal titolo Violenza di genere: dalla prevenzione agli strumenti.

Un incontro ospitato, non a caso, nell’aula del Monastero dei Benedettini dedicata a Stefania Noce, studentessa dello stesso dipartimento, uccisa il 27 gennaio 2011 dall’ex fidanzato.

«Sarebbe bello – ha ricordato con forza la direttrice del Disum – non restasse un’iniziativa isolata, che fosse viceversa il punto di partenza per avviare una riflessione puntuale su un fenomeno sociale, i cui numeri esplicitano da soli una tendenza che l’arma della cultura sarebbe forse in grado di invertire».

L’iniziativa, nata da un dialogo tra studenti - a cominciare da Sofia Santangelo ed Enrico Finocchiaro - e docenti del Disum (come la professoressa Federica Santagati), è stata coordinata da Daniela Conti, ricercatrice e docente di Psicologia generale, oltre che garante degli studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche. In tale veste quest’ultima ha richiamato l’attenzione su quanto previsto dal Codice Etico e di Comportamento dell’Università di Catania: «l’Ateneo s’impegna a valorizzare la diversità di genere e a garantire pari opportunità tra uomini e donne, adottando adeguate misure e interventi di prevenzione delle discriminazioni anche attraverso il linguaggio».

«Opportunità», «linguaggio» sono solo alcune tra le parole ribadite lungo l’intero dibattito tra le riflessioni degli intervenuti, tra cui l’associazione Difesa Donna in collegamento da Milano con l’avvocato Francesca Lucci e i due fondatori Maria Teresa D’Abdon e Roberto Ottonelli.

violenza di genere

Francesca Lucci ha ricordato il dramma della violenza economica subita da chi non trova scampo all’afflizione dei soprusi di un compagno violento, poiché l’atto di rivolgersi alle istituzioni costa talvolta il rischio di perdere una casa in cui abitare o di continuare, in assenza di alternative, a vivere nel luogo in cui si è più esposti alla violenza. L’avvocato indica, ciò nonostante, proprio nella denuncia il principale strumento di difesa: «è possibile presentare denuncia per maltrattamenti ai sensi dell’articolo 572 del Codice Penale, per stalking e violenza sessuale». 

In quest’ultimo caso – prosegue Francesca Lucci – il primo passo fondamentale è recarsi in ospedale, così da ottenere prontamente un referto in grado di accertare, per mezzo di una visita ginecologica, la violenza ed è necessaria anche la presenza di un medico legale. La tempestività è di estrema rilevanza perché l’attesa di 3-5 giorni potrebbe causare la scarsa visibilità delle lesioni utili a costituire una prova in sede giudiziaria. 

L’altro strumento che assicura «tutela per donne coniugate o anche conviventi – ha poi precisato Lucci – è la possibilità di presentare ordine di protezione, previsto dall’articolo 342 bis del Codice Civile, contestualmente alla richiesta di separazione: è una misura cautelare che il giudice può stabilire nei confronti di un partner violento, di cui viene disposto l’allontanamento dalla casa familiare». Tuttavia, in sede penale, accade che i provvedimenti conoscano tempi lunghi, motivo per cui la giurisprudenza necessiterebbe di misure contrastive immediate ed efficaci.

Roberto Ottonelli, vicepresidente dell’associazione, si è soffermato sull’azione di prevenzione diffusa nelle scuole o negli oratori, così riflettendo: «La relazione tossica appare tale a tutti, tranne che a chi la vive, poiché si muove sulla base di un’escalation lenta e progressiva, piuttosto che di un movimento repentino: comprendere ciò è fondamentale per preservarsi dal giudizio e scegliere invece il sostegno e l’accoglienza».

Un suo spettacolo,Credi davvero che sia sincero, adattamento dell’omonimo libro del 2021, verrà presentato a Catania nell’ambito dell’Off fringe festival il 29 ottobre, presso Spazio Mediterraneo, dopo aver debuttato a Milano. Il titolo dell’opera letteraria e teatrale riprende le prime parole cantate da Vasco Rossi al suo concerto nel luglio del 2003. Sia Roberto Ottonelli che Monica Ravizzi erano lì, senza conoscersi, prima che Monica, ragazza di 28 anni, venisse uccisa dal fidanzato.

A raccontarne la storia sua mamma, Maria Teresa D’Abdon, fondatrice nel 2021, dell’associazione. «Era una ragazza – ha esordito – solare, piena di passioni. Ha incontrato poi Diego che l’ha inizialmente ricoperta di amore ma che ha fatto in modo di impedirle progressivamente la frequentazione delle sue amiche fino a mostrare fastidio anche per le visite che Monica faceva a noi, pretendendo ogni attenzione per sé».

Il 18 settembre del 2003, di notte, la telefonata di una vicina avvisa Maria Teresa del fumo fuoriuscente da una finestra della casa della figlia. Quando la donna si precipita, accompagnata in commissariato, viene informata della sua morte, accoltellata e bruciata dal ragazzo prima del tentato suicidio.

«È stata la fine – ha ricordato D’Abdon – ma anche l’inizio di un inferno. La pena combinata di 18 anni, poi ridotta a 16 anni e 8 mesi. A un certo punto, non so perché, ho desiderato incontrare la madre del ragazzo. All’abbazia di Chiaravalle, luogo del nostro incontro, l’ho abbracciata ma lei ha giustificato il figlio e da allora non ho voluto più saperne niente. In quel periodo però ho incontrato Roberto».

Un momento dell'incontro

Un momento dell'intervento della prof.ssa Marina Paino

Ricollegandosi all’importanza del ricordo, la professoressa Maria Grazia Nicolosi, docente di Letteratura inglese e studiosa di Gender Studies, rappresentante del centro interdisciplinare di studi di genere dell’Università di Catania Genus, di cui è presidente la professoressa Stefania Arcara, ha voluto rendere omaggio a Stefania Noce uccisa, come nel caso di Monica, da chi non accettava di venir messo da parte. In un articolo firmato da Stefania nel 2005, intitolato Ha ancora senso essere femministe, si legge: «Nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né di una religione».

Queste parole, ha spiegato la ricercatrice, alludono a un male dalle radici lontane e di cui, solo a titolo esemplificativo, dà ragione il sostrato misogino che accompagna le narrazioni delle scoperte geografiche del Nuovo Mondo in  cui sia l’iconografia che le pratiche di assoggettamento delle popolazioni natìe sono caratterizzate da un immaginario sessualizzato nel segno di un binarismo asimmetrico: «le terre d’indigeni sono la femmina, da scoprire, stuprare, assoggettare», ha affermato la docente. 

All’insegna dello stesso tipo di immaginario, ha spiegato Nicolosi, vi è il repertorio metaforico proprio dell’empirismo scientifico di Francesco Bacone, che ha incentrato il suo modello di rivoluzione scientifica su una natura della conoscenza quale stupro, sul progresso scientifico come asservimento totale della natura.

La professoressa Nicolosi, considera quanto e come il patriarcato persista e rimanga dissimulato finanche in ambito lavorativo, ove sulla base di un rapporto del 2017 di Almalaurea, tanto a un anno che a cinque anni dalla laurea, i ragazzi risultano avvantaggiati nella remunerazione rispetto alle colleghe.

È un dato distante dalle manifestazioni estreme riferito più a una condizione sistemica dentro cui la studiosa crede di trovare il seme della violenza. Sintomatico – ha proseguito – che fino al 1981 fosse in vigore lo ius corrigendi, che permetteva al marito di picchiare la moglie o che fino al 1968 la pena prevista in caso di adulterio per le donne potesse arrivare a due anni di carcere ma che non vi fosse alcuna punizione prevista per gli uomini, all’insegna di un evidente double standard. Quando il tema riguarda la violenza sulle donne poi, si impieghino di frequente parole «pericolose»: “vittima”, “tutela”, “fattore D”, “dignità”, “decoro”, “donna perbene”. 

«Non ci aiutiamo in quanto società. La cultura in generale, gli studi delle questioni di genere nello specifico, possono essere un’arma che ci guidano nell’esigenza di rivoluzionare il nostro immaginario, che può essere ribaltato solo parallelamente a un’educazione al e del linguaggio», ha concluso la docente.

un momento dell'incontro

Un momento dell'incontro

La dottoressa Anna Agosta, presidente dell’Associazione Thamaia di Catania dal 2017, ha illustrato il servizio svolto per le donne succubi di violenza e stalking ma anche della cura per la formazione di una rete anti-violenza. L’associazione è dal 2001 uno spazio radicale per la città: «ho cara la definizione di “luogo didonne per le donne”: esse sono in grado di una esclusiva solidarietà reciproca, perché è un fenomeno che coinvolge tutte. Una donna su tre ha subito o sta subendo una forma di violenza», sostiene la dottoressa Agosta.

 L’associazione garantisce anonimato e accoglienzatramite una linea verde (numero: 1522) attiva h24. È aperta quotidianamente ed è presente sui social. Al centro è possibile recarsi per seguire in maniera individualizzata un percorso di riappropriazione delle potenzialità personali e il sistema di rete è realizzato attraverso la collaborazione con associazioni impegnate nella migrazione, l’università e altre realtà che garantiscono una capillarità di interventi in vari ambiti.

È, infine, intervenuta la professoressa Pina Arena, insegnante di Lettere presso l’istituto G.B. Vaccarini, presentandoil corto Dì di no, prodotto finale di un laboratorio cinematografico durato due anni, nato dalla compartecipazione di insegnanti, studenti e genitori con il centro Thamaia. Il filmato segue un filo che attraversa storie differenti, tutte legate alla patologia di un amore presunto o alla gelosia ossessiva illusoriamente creduta sentimento di devozione, rielaborando le esperienze raccolte allo sportello Pari Amore, condotto dalla professoressa e da venti studenti.

L’incontro, particolarmente partecipato, si è concluso con la consapevolezza della necessità di due concetti su tutti gli altri: rete e cultura. La cultura può insegnare la nobiltà della parola “giustizia” e fornire uno strumento in più per riconoscere le molte donne e i molti uomini giusti della nostra società, modelli a cui ispirarsi.E solo facendo rete si può percorrere una strada anche in un “abisso” che va sempre riconosciuto come tale e condiviso.