Ricordare come atto di resistenza

Con Itria, Aurora Miriam Scala racconta i “fatti di Avola” da una nuova prospettiva

Ludovica Rinciani (foto di Francesco Di Martino)
Aurora Miriam Scala nelle vesti di Itria Carfì
Aurora Miriam Scala nelle vesti di Itria Carfì
Aurora Miriam Scala nelle vesti di Itria Carfì

Alcune storie sono un fuoco perpetuo, la cui memoria viene alimentata per secoli da intere popolazioni. Vengono commemorate ogni anno, se ne discute nelle scuole, nelle sale congressi delle università; talvolta la testimonianza dei protagonisti arriva anche in Parlamento. Altre, al contrario, sono una fiammella da proteggere dall’oblio del tempo. Il loro ricordo vive all’interno delle mura familiari, riservato a quei pochi che l’hanno vissuto in prima persona e ne resteranno gli unici custodi fino alla morte. 

Sarà allora che la fiammella si spegnerà del tutto.

Sembrava essere questo il destino della drammatica storia di Giuseppe “Peppuccio” Scibilia, umile contadino come tanti altri della provincia siracusana, ma l’impegno civile e la cura che la giovane autrice e interprete Aurora Miriam Scala ha riversato nel suo spettacolo Itria ha permesso a questa vicenda di arrivare nel XXI secolo con una potenza emotiva travolgente. 

Lo spettacolo, andato in scena sul palco del Piccolo Teatro della Città (sabato 5 novembre e in replica il giorno successivo), fa parte della rassegna Nuovo Teatro, dedicata alla drammaturgia contemporanea

Era stato presentato sotto forma di corto teatrale durante l’edizione 2022 di Teatri Riflessi, ottenendo il premio per la miglior Drammaturgia italiana e una menzione speciale della stampa. Oggi è un monologo che ha fatto conoscere non soltanto Giuseppe Scibilia, ma soprattutto la moglie Itria Carfì, alla quale è intitolato lo spettacolo.

Aurora Miriam Scala nelle vesti di Itria Carfì

Aurora Miriam Scala nelle vesti di Itria Carfì

È attraverso gli occhi di questa donna ordinaria che vengono raccontati i cosiddetti “fatti di Avola”, le proteste dei braccianti agricoli per l’ottenimento di una retribuzione adeguata che culminarono il 2 dicembre 1968, quando la polizia sparò alla folla di manifestanti uccidendone due – Giuseppe Scibilia di 47 anni e Angelo Sigona di appena 29 – e ferendo i restanti quarantotto, alcuni gravemente. 

Aurora Miriam Scala evoca l’atmosfera concitata che si respirava in quel lontano ’68, si cala con sicurezza nei panni dei contadini animati dalla voglia di rivalsa, di rivolta. L’aria è cambiata, diranno più volte; basta essere trattati come bestie.

Itria si presenta al pubblico in ginocchio, vestita a lutto: suo marito se n’è andato, lo sta piangendo cantando un repitu, il tradizionale lamento funebre siciliano che tesseva le lodi del defunto. Alla donna, però, questo non basta: vuole mostrare chi era stato il suo amato Peppuccio adesso che per tutti gli altri è diventato soltanto un nome da incidere su una lapide e uno da occultare per le autorità. Indossa il suo abito da sposa e torna alla sé fanciulla, innamorata e ferma nella sua decisione di sposare un uomo umile, andando contro il parere della famiglia.

Caricando di grande vulnerabilità il personaggio di Itria, Scala riesce a portare sul palcoscenico l’ordinarietà e l’amore che hanno riempito ogni aspetto della vita dei coniugi Scibilia, mettendo al centro la loro umanità, ciò che sono stati, come a voler sottolineare che le più grandi tragedie accadono a uomini e donne comuni. Giuseppe e Itria non erano eroi né rivoluzionari, ma instancabili lavoratori, genitori amorevoli che vivevano con quel poco che l’uomo ha pagato con la vita.

Aurora Miriam Scala nelle vesti di Itria Carfì

Aurora Miriam Scala nelle vesti di Itria Carfì

«Ricchi no, ma fortunati assai», Itria ripeterà prima con gioia al marito e dopo con rabbia alla Madonna. 

È proprio a quest’ultima che la donna si paragonerà nel corso della pièce teatrale. Anche lei ha perso il perno attorno a cui ruotava la sua vita ma, a differenza di Maria, Itria non potrà mai conoscere i colpevoli della scomparsa di Peppuccio né il motivo di tale crimine. Come Maria, viene considerata coraggiosa, un esempio, ma a cosa serve esserlo quando nessuna autorità vuole ascoltare il tuo grido di aiuto e concedere giustizia a te e ai tuoi tre figli?

Itria Carfì è morta nel 2018, a cento anni, la maggior parte dei quali passati a cercare invano la verità sull’eccidio avolese. La Regione siciliana le ha soltanto concesso un vitalizio. Grazie anche al sacrificio del suo Peppuccio e di Angelo Sigona, nel 1970 venne introdotto lo Statuto dei lavoratori, una legge a difesa dei lavoratori che tuttavia, oggi come allora, fatica sia a contrastare il problema del caporalato, sia a proteggere i più deboli che continuano a morire nelle campagne per pochi euro.