Al Monastero dei Benedettini la pellicola “The Mother of all lies” di Asmae El Moudir è stata al centro dell’incontro “Archivio familiare e memoria collettiva”
Kadib Abyad, tradotto in inglese con il titolo di The Mother of all lies, rappresenta un caso fuori dall’ordinario. La pellicola di Asmae El Moudir, con il suo approccio documentaristico e autobiografico, segue l’iniziativa di El Moudir, che, insieme al padre Mohammed, costruisce un atelier di argilla rappresentante la sua famiglia e i luoghi dell’infanzia, allo scopo di risalire a un passato taciuto.
In occasione dell’XI edizione dei seminari Conoscere il mondo islamico, intitolata Le storie, la Storia: mondi arabi al cinema, il gruppo di organizzatrici - Laura Bottini, Mirella Cassarino, Cristina La Rosa, Ilenia Licitra, Rosa Pennisi e Alba Rosa Suriano - ha previsto sei incontri che ripercorrono il filo rosso di tematiche geopolitiche del mondo islamico attraverso opere cinematografiche.
Le opere scelte sono state dirette da registi di diverse nazionalità (Tunisia, Marocco, Libano, Palestina, Francia), offrendo un ampio e differenziato specchio del mondo arabo nelle sue sfaccettature contemporanee.
Nel corso dell’incontro dal titolo Archivio familiare e memoria collettiva il caso di Kadib Abyad di Asmae el Moudir, è stato presentato dalla dott.ssa Angelika Palmegiani, laureata in Letteratura generale e Critica comparata all'Università Mohammed V di Rabat.
L’opera scelta in questione, uscita nel 2023, è il feature film di debutto di Asmae El Moudir, regista, screenwriter e produttrice marocchina, che la presenta in anteprima al Festival di Cannes 2023, per la sezione Un Certain Regard, ricevendo il premio Golden Eye per la miglior regia. Coronato il suo percorso di studi prima con il master in documentary cinema alla Abdelmalek Essaâdi University in Tetouan, poi con un altro master in production al Superior Institute of Information and Communication of Rabat. Si è diplomata nel 2010 alla Moroccan Film Academy in Film Directing / Fiction; infine, nel 2013, ha frequentato il programma universitario estivo alla La Fémis a Parigi.
L’idea del film nasce da una sorta di inchiesta portata avanti da El Moudir nel passato della sua famiglia: circa all’età di 12 anni, la regista ha iniziato a chiedersi perché mancassero fotografie di sé e della sua famiglia; la madre le aveva sempre mentito, mostrandole una foto sfocata a cui la ragazzina non aveva mai creduto. La ricerca della spiegazione della mancanza di alcuno scatto o documento visivo spesso riconduceva alla criptica figura della nonna Zahra, personaggio centrale della pellicola, autorevole voce della famiglia, che da sempre aveva proibito di produrre qualsiasi tipo di immagine.

La copertina del film
L’unico scatto concesso, incorniciato e appeso in casa era il ritratto del re Hassan II, adorato dalla nonna. Al fine di venire a capo a questo “enigma”, e mettere luce sul buio del suo passato familiare, El Moudir realizza, insieme al padre Mohammed, un Atelier composto da una serie di settings abitati da miniature in argilla, ricostruendo la strada del quartiere della sua infanzia di Sebata a Casablanca. Difatti completare l’opera richiederà alla director anni di lavoro, sia per complicanze tecniche sia familiari. La nonna Zahra, nelle prime fasi del progetto non vorrà essere ripresa, cambiando idea col passare degli anni.
Kadib Abyad rappresenta una ricostruzione di eventi familiari – da qui l’elemento autobiografico – collocati in un contesto storico definito, gli Anni di Piombo del Marocco, periodo che, sebbene non esista un consenso unanime sulla datazione, può essere circoscritto al regno di Hassan II (1961-1999). In particolare, un evento cardine ripercorso dalla pellicola è quello delle Rivolte del pane, avvenute nel 1981 a Casablanca, proprio nel quartiere dove il nucleo familiare della regista risiedeva al tempo.
Gli Anni di piombo costituiscono un periodo controverso per la storia del Marocco, permeato da un clima di costante ansia e pericolo. Discutere gli eventi del periodo è difficile poiché la verità è stata a lungo messa a tacere dalle istituzioni, diffondendo un segreto che, se inizialmente stato imposto dall’alto, ha preso piede nell’intimità della famiglia, tramandandosi fino ai giorni nostri; emblematica la frase di nonna Zahra: «anche i muri ascoltano».
Tragedie come quelle delle Carceri segrete, in particolare a TazMarart, o le vittime delle violente repressioni delle rivolte sono state del tutto occultate per decenni. La dinamica della censura della storia assume così tre dimensioni: la rimozione istituzionale, i silenzi sociali e familiari e la censura culturale e politica. Per la famiglia di El Moudir, descrivere quei ricordi, ormai nascosti da una nebbia di confusione e silenzi, è difficile quanto doloroso.
Fatte queste premesse, possiamo esplorare l’intreccio di tematiche composto dalla regista, capire il rapporto tra l’archivio di ricordi e la memoria familiare. La memoria non è qualcosa di semplice. Quella familiare si rapporta a quella collettiva, ad esempio nell’istanza delle rivolte del pane: diventa storia collettiva del quartiere, che è storia collettiva del paese. Allo stesso tempo, il clima di censura e di silenzio degli Anni di piombo, si riflette nel silenzio che permea il passato familiare di El Moudir. Costruendo l’Atelier, l’obbiettivo è quello di creare uno spazio dove le memorie possano essere ripercorse, o piuttosto, riattivate.
Questo perché le memorie, quelle messe a tacere, chiuse in un polveroso scaffale dietro un lucchetto, non sono immediatamente accessibili. A questo proposito, l’atto di comporre con l’argilla le miniature dei familiari e gli spazi in cui hanno vissuto, oltre a essere un atto di attiva terapia familiare, porta alla riattivazione e alla produzione di vecchie e nuove memorie. La manualità del padre Mohammed, inquadrato mentre ricostruisce ogni singolo oggetto, gli permette di rivivere e appropriarsi delle storie collegate a quegli oggetti.
Il passato si intreccia col presente ricomponendo la realtà: l’argilla, inquadrata dalla regista sparsa sul tavolo come il sangue di un silenzioso eccidio, si ricompone in qualcosa di solido, concreto e visibile. La forza dell’idea alla base di Kabid Abyad è quella di compilare un archivio di ricordi unico nel suo genere, e anzi, farlo compilare dai protagonisti delle vicende.
La dott.ssa Angelika Palmegiani si concentra proprio sulla natura del termine archivio, insita di contraddizioni. Il suo obbiettivo dovrebbe essere conservare, salvare dall’oblio, ma non è sempre questo il caso. Di che archivio si tratta? È privato o istituzionale, chi l’ha fatto e con quale intento? Cosa è stato preservato, mentre cosa è stato inevitabilmente escluso? Questa è la natura doppia dell’archivio, che, come una lama a doppio taglio, può portare a delle complicazioni.
In generale, l’archivio è innanzitutto uno strumento: regola l’accesso alle memorie, sancisce i margini tra queste e l’oblio. In tempi contemporanei, gli archivi istituzionali sono messi in dubbio, specialmente tenendo in considerazione la riscoperta e reinterpretazione delle narrazioni dell’età coloniale diffuse dagli stati colonialisti. Una nuova terminologia è quella dell’archivio fluido, instabile, plurivocale e non istituzionale. In questo caso, la cinematografia autobiografica ha un posto privilegiato per la sua capacità di archiviare gli eventi narrati.
L’opera riesce a unire tradizione e avanguardia, ponte tra passato e presente, riscopre ciò che sembrava essere andato perso, apre a interessanti spunti sul contemporaneo, dalle recenti rivolte in Marocco ad una riflessione sulla natura della libera espressione nel mondo. Sicuramente, per chi non ha avuto ancora modo di vederlo, è una gemma da non perdere.