Talentuosi e capaci di creare sviluppo reale, ecco i nuovi ‘aristocratici’ di Abravanel

Il saggista ha tracciato il profilo della classe dirigente che può salvare il 'sistema Italia' nell’era dell’economia della Conoscenza

Mariano Campo

In canna ha già un attesissimo pamphlet, un atto di accusa verso quelle imprese che si dicono ‘paladine della sostenibilità’, ma in molti casi – assicura – si tratta soltanto di greenwashing, una vera e propria foglia di fico, che nasconde ben altre mire che la volontà di salvare il pianeta. 

Non è certo nuovo alle crociate, anche impopolari, contro quelli che a suo dire sono i colpevoli del declino dell’Italia, e non si è tirato indietro neanche con il suo ultimo volume, “Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia”, scritto a cavallo del periodo più duro della pandemia, i cui temi sono stati al centro della ‘lectio’ che Roger Abravanel, director emeritus della società di consulenza internazionale McKinsey, saggista ed editorialista del Corriere della Sera, ha tenuto venerdì scorso nell’aula magna della Scuola Superiore dell’Università di Catania, su invito del presidente Daniele Malfitana.

Introdotto dal giovane allievo della Scuola Giulio D’Arrigo, dalla coordinatrice della classe di Scienze umanistiche e sociali Adriana Di Stefano e dallo stesso presidente Malfitana, Abravanel, autore di best seller quali “Meritocrazia” e “Italia, cresci o esci”, ha tracciato il ritratto di quegli ‘aristocratici 2.0’ che, a suo avviso, sarebbero l’unica classe dirigente in grado di salvare il Paese. 

Sgombrando però subito il campo dagli equivoci: «Non sono nostalgico di latifondisti o dei Gattopardi, al vertice della società soltanto per diritto di nascita – precisa -, ma di quei ‘migliori’ a cui gli ateniesi o i cinesi dai tempi di Confucio affidavano il governo delle poleis e l’amministrazione del Celeste Impero. I nuovi aristocratici, secondo la mia definizione, sono migliori perché preparati e talentuosi, selezionati attraverso criteri realmente meritocratici. Ricchi non perché ricevano dagli avi terre e patrimoni, ma perché si guadagnano l’accesso alle migliori università: a loro andrebbe affidata la missione di creare opportunità e sviluppo per tutti gli altri».

Ssc un momento dell'incontro

In foto Daniele Malfitana, Adriana Di Stefano e Giulio D'Arrigo, in video-conferenza Roger Abravanel

L’incontro ha ufficialmente aperto i lavori dell'assemblea nazionale della Riasissu (la Rete italiana degli allievi delle Scuole superiori universitarie italiane), che quest’anno si tiene nuovamente nella città etnea, dopo l’edizione del 2016: «Con vero piacere la Ssc torna ad ospitare un momento caratterizzato da discussione e confronto tra gli allievi provenienti da oltre dieci Scuole di eccellenza del Paese – ha osservato il presidente Daniele Malfitana -. È un momento importante di riflessione su diversi temi, sentiti da tutti gli studenti, che verranno affrontati con obiettività. Al professor Abravanel, che al tema del futuro dei giovani, della meritocrazia e degli scenari che li aspettano dopo la conclusione del loro percorso formativo ha dedicato studi ed analisi severe ma significativamente utili per la crescita, abbiamo voluto affidare l’intervento inaugurale».

«I veri problemi di questo paese – ha esordito il relatore – sono ben diversi da quelli che vengono raccontati sui giornali e nelle facoltà di economia. Il Sud, ad esempio, non è una zavorra né un problema: è una fucina di straordinario capitale umano al quale però non vengono offerti strumenti e opportunità adeguati. Il Nord, invece, è un problema: è rimasto ancorato a un modello di capitalismo familista che andava bene 40 anni fa; il mantra “piccolo è bello” ha mostrato i suoi limiti e oggi tutte le grandi imprese italiane sono sparite, una vera ecatombe. L’economia nel frattempo è cambiata, non è più quella delle fabbriche né dei servizi, ma quella della conoscenza, che fa leva sul talento, sulle capacità intellettuali, sulla tecnologia e la scienza, e offre chances soprattutto ai laureati. Il Covid, che è stato contenuto proprio grazie al lavoro di multinazionali e di ‘start up’ eccellenti, e perfino l’emergenza climatica hanno accelerato questi passaggi, e lasciano intravedere sfide e opportunità per chi le sa cogliere. Insomma, il mondo è cambiato, oggi “big is beautiful”, ma non se ne sono accorti gli imprenditori, né i giornalisti, né le università».

All’accantonamento del capitalismo antimeritocratico e dello ‘statalismo di ritorno’, che bolla come “droga per l’economia” (definizione che estende anche al Pnrr), Abravanel associa un’improrogabile riforma della giustizia, «un potere autoreferenziale che genera quella paralisi decisionale e amministrativa che nessun governo è riuscito a scongiurare» e soprattutto dell’università, responsabile della formazione della classe dirigente. «Negli Usa i dieci uomini più ricchi si sono laureati nelle migliori università; in Corea, una delle ‘tigri asiatiche’, il 70% dei giovani sono laureati; la Cina sta sfornando generazioni di manager e tecnici selezionatissimi – rileva -. Da noi invece la meritocrazia non ha mai preso piede, è quasi un disvalore, i più ricchi spesso non sono neanche laureati e mancano gli strumenti per incentivare il talento. I giovani non hanno fiducia né ottimismo, perché credono che il merito non paghi. Ma se la nostra società è ferma è proprio perché siamo il paese meno meritocratico del mondo, vanno avanti sempre i ‘figli di’, nelle imprese, nelle università e nelle carriere, e molte scelte, anche aziendali, vengono prese in base al principio del ‘tengo famiglia’».

Ssc un momento dell'incontro

Un momento dell'incontro

Gli esempi all’estero non mancano, Abravanel ne cita a decine: l’Imperial College di Londra, l’ETH di Zurigo, la migliore università europea secondo i ranking, che hanno numeri molto più elevati della stessa migliore università italiana, il Politecnico di Milano, e attirano fondi e gli studenti migliori; o Harvard, dove nel 1933 è nata la selezione ‘meritocratica’ e gli altri atenei della cosiddetta IVY League. «Anche le nostre università devono saper cambiare – insiste -, devono diventare motori di sviluppo e di crescita, è dimostrato che le aziende eccellenti, che creano migliaia di posti di lavoro qualificati, vengono create dalle eccellenze delle università. E gli studenti devono aspirare ad accedere alle università migliori, non devono accontentarsi di quelle sotto casa, per comodità o pigrizia, devono pretendere il ‘top’ per realizzarsi e creare opportunità per sé e per gli altri».

Ma una selezione così spinta è socialmente e moralmente accettabile? Gli viene chiesto senza troppi giri di parole, e anche con più di un tono polemico, da parte degli stessi studenti ‘eccellenti’ che lo ascoltano. 

«Le pari opportunità in Italia sono state un’utopia – replica – e l’egualitarismo un’ipocrisia: se ciò che muove gli ‘aristocratici 2.0’ non è solo il profitto, quello che realmente contano sono allora le ‘buone opportunità’ che essi potranno creare a beneficio di tutti. Parafrasando una frase di Kennedy, la marea fa salire le barche grosse ma anche le piccole, e la stessa innovazione introdotta da alcune aziende si sta dimostrando, a livello globale, un concreto strumento di welfare». 

«La meritocrazia – ha concluso Abravanel, ripetendo il messaggio che lancia in ciascuno dei numerosi incontri con studenti che tiene ogni anno – richiede competizione reale, impegno e fiducia. E in nome di questa fiducia, i giovani possono e devono provare a cambiare il Paese, se ci tengono a restare in Italia; se falliranno, saranno tristemente costretti ad andarsene».