Teatri Riflessi racconta l’Alterità

L’ottava edizione del Festival dei Corti è stata dedicata all’inclusione nella espressione della bellezza ad ampio respiro attraverso le arti

Irene Isajia (foto Teatri Riflessi)

Per il secondo anno consecutivo l’anfiteatro “Falcone e Borsellino” di Zafferana Etna ha rappresentato lo scenario di Teatri Riflessi. Il festival dei corti teatrali che, dal 13 al 15 luglio, ha visto in finale tredici performance provenienti da diverse parti del mondo sotto la direzione artistica di Dario D’Agata e Valerio Verzin (vai alle interviste) e con la collaborazione di Viagrande Studios, Interculture e di numerosi giovani volontari del WorkCamp Lunaria e studenti dell’Università di Catania. 

«Il festival vuole essere un pretesto per avvicinare il pubblico alla scena contemporanea, valorizzando anzitutto il territorio attraverso le arti e il teatro» spiega Valerio Verzin. 

Tutti hanno avuto, soprattutto gli scettici, l’opportunità di vivere dei piccoli assaggi di teatro con l’approccio a performance brevi, di circa quindici minuti, senza trascurare gli aspetti drammaturgici, coreografici e musicali. Dentro la tre giorni anche Testi Riflessi a cura di Grazia Calanna, uno spazio dedicato alla presentazione di libri e attività per bambini, per ascoltare e riflettere alla luce del tema del festival: Alterità

Una parola che è un invito all’incontro di punti di vista diversi, celebrazione delle differenze come ricchezza e tentativo di inclusività. Un confronto che si è realizzato non soltanto nello spazio “Forum” del festival, ma anche all’interno delle rappresentazioni in cui si è dato spazio a temi fortemente controversi per fermarsi a riflettere principalmente sull’umanità che viene prima di ogni costrutto culturale. 

Un momento della presentazione di Teatri Riflessi, in foto gli organizzatori

Un momento della presentazione di Teatri Riflessi, in foto gli organizzatori

Alterità è la presenza del diverso che è ciascuno di noi e ciò rende unico e arricchisce, come accade nelle arti dove ciascuna resta fedele a sè stessa moltiplicando il valore dell’altra nel connubio tra due o più.

Una ricerca spinta dalla musica che si rende presente in ogni tempo e spazio della nostra vita quotidiana e spesso evidente in quella performativa. Al contempo diventa sinonimo della vita stessa che può essere soltanto un tappeto sonoro dentro la drammaturgia, ma anche rappresentare un elemento della narrazione ed essere considerata coesiva e fil rouge dei significati performativi.

Dunque, osservare i corti, ascoltare i suoni, comprendere i significati dentro il contesto del tema conduttore attraverso il filtro musica come alterità

La musica ha rappresentato l’Alterità nel nesso con la vita come piccole istantanee che emergevano dai ricordi del corto “Tutto il mio amore” di Melania Fiore e dove il silenzio apre la porta alle parole, quelle interiori, quelle del nostro pensiero più intimo. 

Al tempo stesso la musica ha accompagnato l’incontro tra corpo e coscienza come sospensione eterea, spazio eterno di un dialogo che si ritrova nell’infinito dentro la danza di Corrente di Beatriz Mira e Tiago Barreiros

E ancora ha permesso di raccontare un’alterità del quotidiano dove il movimento è tempo sincronico di corpi, di volti, di sguardi e di voci, dove il silenzio è il suono di tutti e di ciascuno come in K(-A-)O di Kenij Shinohe, vincitore assoluto del concorso di Teatri Riflessi. 

Alterità è stata anche la Musica che nell’elettronica evidenzia le difformità sociali come nel corto di Turi Zinna, La vera storia di Turi ‘u Bastaddu e Agatina puntini puntini.

Kenij Shinohe

Kenij Shinohe in un momento della sua performance a Teatri Riflessi

In particolar modo hanno colpito i tempi proposti da due finestre d’arte: il progetto Human Saliens ad opera di Viagrande Studios e gli intermezzi performativi alle serate del festival a cura di Erin B. Mee, docente di drammaturgia alla New York University.

Human Saliens

È un progetto di Viagrande Studios, coordinato da Claudia Migliori, in cui cooperano gli studenti dei corsi di avviamento professionale danza e quelli della scuola di scrittura e story-telling del centro viagrandese di alta formazione in arti e spettacolo. 

Il focus è stato rivolto a Maria Callas, nel centenario della sua nascita, attraverso cinque dei ruoli femminili da lei interpretati (Medea, Desdemona, Lucia di Lammermore, Norma, Carmen) che da suggestioni sono diventate delle vere e proprie opere di site-specif, la cui peculiarità è di essere pensati e realizzati per un luogo determinato. 

Gli spazi dell’anfiteatro si sono trasformati così in palcoscenico naturale per brevi performance di danza contemporanea ricche di significati, di sguardi di movimenti, di parole, di suoni. 

Erin B. Mee e gli intermezzi performativi

Le serate del festival, senza preavviso, hanno reso il pubblico stesso performer grazie alle intuizioni di Erin B. Mee, docente di drammaturgia della Tisch School of the Arts (New York University).

Ha esordito, nella prima serata, attirando l’attenzione di tutti come se stesse recitando un monologo. «Mettetevi in piedi» ha detto rivolgendosi al pubblico. «Coraggio, mettetevi tutti in piedi. Prendete un oggetto dalla borsa, dalla tasca; se non lo avete basta lo schiocco della lingua» ha aggiunto. 

Il pubblico pendeva dalle labbra di Erin B. Mee che, trasformata in direttore d’orchestra, coordinava tempi, volumi, chiusure dando vita alla Sinfonia degli oggetti ritrovati

A questa è seguita la Danza dei colori sulla cartolina, il Valzer della caramella, insieme ad altri momenti durante le tre serate del festival, in cui Erin B. Mee ha spiegato, attraverso queste performance, che l’arte è inclusiva; può essere messa in atto coinvolgendo sensi diversi pur chiamandola con termini che, nell’immaginario collettivo, sono connessi a sensi esclusivi (la danza è movimento degli arti; il teatro è parola; la musica è ascolto). 

E se ci trovassimo di fronte a qualcuno che ha un senso compromesso? Anche l’arte sarebbe esclusa per questa persona? Ecco, quindi, che un uomo in sedia a rotelle può far danzare il gusto, con la bocca e la lingua, e che un sordo può far suonare un oggetto, con il suo tatto.

Tutto diventa spettacolo, dai sensi allo spazio, dal luogo alle persone tutte, persino il silenzio.

Erin B. Mee in un momento della sua performance a Teatri Riflessi

L'attrice Melania Fiore durante le prove del suo spettacolo "Tutto il mio Amore"

«Io mi ispiro a John Cage, uno dei più grandi compositori e teorici della musica statunitense – ha raccontato Erin Mee - il quale insegna che è tutto musica, dentro, fuori e attorno a noi. Sono stata influenzata da lui quando ero giovane e questo esercizio sinfonico lo condivido insieme ai miei studenti perché è principalmente un esercizio di ascolto». 

«Certamente mettere in atto la Sinfonia degli oggetti ritrovati in uno spazio aperto e con tante persone, diventa difficile poiché i suoni sono percepiti principalmente come rumori - ha aggiunto - solo dopo essere entrati nell’ascolto dell’altro, si comprende che il suonare insieme ha bisogno di comprensione, ascolto e modulazione di sè stessi e degli stessi suoni. È diverso, si capisce, quando lo stesso esercizio lo svolgo in aula con poco meno di venti studenti». 

«L’obiettivo, però, è lo stesso, quello di comprendere che gli oggetti che ci circondano producono suoni come ad esempio accartocciare un foglio di carta, muovere un mazzo di chiavi, stringere una lattina vuota – ha raccontato la regista teatrale americana – e, insieme, questi costruiscono sinfonie nuove, non costruite nella maniera in cui siamo abituati a percepire la musica ovvero fatta da note prodotte da strumenti musicali. Lo stesso è connesso allo sperimentalismo del Judson Dance Theatre che, a partire dagli anni ’60 in America, ha posto un nuovo sguardo sull’idea di danza legittimamente intesa e proponendo una nuova estetica del virtuosismo tecnico prodotto dai movimenti del corpo del nostro quotidiano che creano danza, basti pensare ai passi della camminata, al morso di una mela, allo spogliarsi».

Un momento dello spettacolo

Un momento di uno spettacolo a Teatri Riflessi

«Mi piace molto l’idea che ciascuno sia parte attiva dello spettacolo – ha spiegato Erin B. Mee –. Siamo abituati a vedere lo spettatore seduto a guardare il palco come luogo dove si realizza la creatività. Ma chi dice che non possiamo essere tutti insieme creatori di qualcosa? È per questo motivo che i piccoli spettacoli che ho pensato prevedono che anche il pubblico sia performer, sia produttore di nuova creatività, ciascuno compiendo la sua parte sarà coautore di un nuovo spettacolo insieme in cui spazi, attori, pubblico possono essere ripensati e riconsegnati in una veste nuova”.

Questa è contemporaneità. Questa è alterità. Un’inclusione possibile se lo sguardo non si ferma e riesce ad andare oltre. 

«Teatri Riflessi si è nutrito di nuovi stimoli, nuovi spunti di riflessione e nuove occasioni per intercettare pubblici sempre più diversificati» ha dichiarato Dario D’Agata, fondatore dell’evento. 

«La partecipazione di giovani da noi formati e, per la prima volta, del contributo regionale, hanno permesso di dedicarci con maggiore cura alle varie aree del festival e al concorso, potendo offrire a tutta la comunità presente (famiglie, artisti, operatori culturali, giornalisti, critici, studenti) numerosi stimoli e momenti di aggregazione per riflettere sull’arte, le politiche culturali, i territori e le comunità. Perché l’arte non è divisiva, non può essere elitaria, ma è un’espressione antropica inclusiva e aggregante». 

Pubblico presente ad una serata di Teatri Riflessi

Pubblico presente ad una serata di Teatri Riflessi