L’incontro, sul tema “Uomini, Responsabilità e Cambiamento”, ha approfondito il ruolo maschile nella promozione del rispetto e prevenzione della violenza di genere
Quando parliamo di violenza spesso immaginiamo un evento già accaduto, un atto da condannare, una vittima da proteggere. Ma fermarsi qui non basta. Prevenire la violenza significa agire prima che accada, riconoscerne i segnali, creare spazi sicuri dove ascoltare, riflettere e, soprattutto, responsabilizzare. È proprio questo il cambio di sguardo che serve: mettere al centro non solo chi subisce, ma anche chi agisce la violenza, offrendo strumenti per comprenderla e interromperla.
Su questo si è focalizzato il secondo appuntamento del ciclo di incontri dedicato alla cultura del rispetto e al contrasto della violenza di genere che si è svolto nei giorni scorsi nel Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania.
L’incontro ha visto la partecipazione di tre figure professionali con competenze diverse, ma complementari: l’avvocata Valentina Armenia, del Foro di Catania, esperta nella tutela delle vittime di violenza domestica e abusi, l’avvocata Maria Concetta Tringali, consigliera di fiducia dell’Ateneo, che offre supporto giuridico a chi vive situazioni di disagio, discriminazione o molestia e lo psicologo e psicoterapeuta Antonello Arculeo, impegnato in percorsi di accompagnamento e consapevolezza rivolti agli uomini autori di violenza.
Ed è proprio il punto di vista portato da Antonello Arculeo a rappresentare il cuore pulsante della riflessione: non si tratta solo di riparare un danno, ma di comprenderne le cause, di lavorare sulle radici culturali e psicologiche della violenza. Offrire agli uomini che hanno agito con violenza la possibilità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni avviando un percorso di cambiamento che non significhi giustificare, ma prevenire – ed evitare che la violenza si ripeta.
A promuovere e coordinare l’incontro è stato il Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo, presieduto dalla prof.ssa Germana Barone, insieme con la consigliera di fiducia Maria Concetta Tringali (vai all'intervista). Un’alleanza tra competenze diverse – giuridiche, psicologiche, istituzionali – che garantisce una presa in carico attenta e multidisciplinare. Questo approccio integrato è ciò che rende l’Ateneo non solo un luogo di formazione, ma anche uno spazio di tutela, ascolto e crescita.

Un momento dell'intervento della prof.ssa Germana Barone
Perché la violenza non sempre si presenta in modo evidente. A volte si insinua nei silenzi, nei piccoli abusi di potere, nei rapporti sbilanciati che tolgono voce, libertà, spazio. Imparare a distinguere tra un conflitto e una relazione violenta è fondamentale: nel conflitto resta la simmetria, la possibilità di confronto. Nella violenza, invece, uno prende il sopravvento sull’altro. E lì si rompe qualcosa.
Parlarne oggi, nei luoghi della conoscenza e della ricerca, significa coltivare consapevolezza e costruire insieme una cultura che sappia riconoscere, proteggere, ma anche trasformare. Perché il cambiamento è possibile, se si ha il coraggio – e il supporto – per iniziarlo.
Al centro del dibattito tre parole chiave: responsabilità, rabbia, consapevolezza. L’avvocata Valentina Armenia ha spiegato come molti uomini arrivino ai percorsi del centro Etnopasso dopo una sospensione della pena, ma frequentare non basta: serve un reale impegno e una presa di coscienza autentica. “Il primo passo è capire se l’autore riconosce davvero la violenza agita, o tenta di giustificarsi,” ha precisato.
Molti, infatti, scaricano la colpa sull’altro, minimizzando. Una distorsione comune anche nel racconto pubblico della violenza, come ha osservato l’avvocata Maria Concetta Tringali: spesso si narra dal punto di vista di chi la compie, attenuandone la gravità.

Un momento dell'incontro
Lo psicoterapeuta Antonello Arculeo ha approfondito il tema della rabbia, emozione umana che, se non gestita, diventa distruttiva. “Chi agisce violenza spesso non riconosce l’impatto che ha sugli altri, nemmeno sui figli che assistono in silenzio.” A mancare è soprattutto l’empatia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro.
Infine, la consapevolezza: Il terzo elemento, forse il più importante. “Chi partecipa ai nostri percorsi non è un criminale in carcere,” ha puntualizzato il dott. Arculeo. “Sono persone comuni, molto diverse tra loro, ma accomunate da una nuova consapevolezza: quella di aver oltrepassato un limite e di voler cambiare.”
Eppure, il cambiamento non è garantito. Non tutti coloro che iniziano un percorso arrivano alla fine. Alcuni vengono esclusi, altri interrompono, e in diversi casi – ha ricordato l’avvocata Armenia – “vengono redatte relazioni negative alle autorità giudiziarie, proprio perché non emergono segnali reali di evoluzione”.
Un esempio emblematico di ridimensionamento della violenza è quello dello stalking, spesso confuso con atti “romantici” o “insistenti”. Chiamate continue, richieste di foto, controllo costante: molti giovani, come emerso da una recente indagine di Save The Children, non riconoscono questi gesti come violenti. Li normalizzano. Li accettano.
Ed è proprio in questo terreno ambiguo e pericoloso che il lavoro educativo diventa essenziale. “Non si può lavorare sulla violenza - ha affermato Arculeo - se prima non si riconoscono i gesti quotidiani che la alimentano: un commento fuori luogo, uno sguardo di disprezzo, un tentativo di controllo.”

Alcuni dati illustrati nel corso del convegno
A chiudere il dibattito è stata l’avvocata Maria Concetta Tringali, che ha voluto sfatare uno degli stereotipi più pericolosi: “Diffidate da chi parla di un omicidio come di un gesto improvviso, dettato dalla rabbia del momento. La verità è che ogni femminicidio è l’esito di un’escalation: violenze ripetute, scuse, promesse di cambiamento. Un ciclo che si ripete finché qualcuno, o qualcosa, non lo interrompe.”
È su questa consapevolezza che si fonda anche il prossimo appuntamento promosso dall’Università di Catania: I panni sporchi si lavano in pubblico, un flash mob dal respiro nazionale che si terrà il 5 giugno a Catania. L’iniziativa nasce con un messaggio forte e chiaro: la violenza non è un fatto privato. Non possiamo più permettere che rimanga chiusa tra le mura di casa, taciuta, giustificata, nascosta.
Portare simbolicamente “i panni sporchi” in piazza significa rompere il silenzio, assumersi la responsabilità collettiva dell’ascolto e del cambiamento. È un invito rivolto a tutta la comunità – studentesca, accademica, cittadina – a farsi parte attiva nella costruzione di una cultura fondata sul rispetto, sulla parità, sulla prevenzione della violenza in tutte le sue forme.
Perché di violenza si può e si deve parlare. E farlo pubblicamente è il primo passo per non sentirsi soli. Il primo passo per cambiare.

Durante una manifestazione contro la violenza sulle donne, novembre 2023 (Photo by Stefano Montesi – Corbis/Getty Images)