Al cinema Ariston di Catania il regista Marco Bellocchio ha presentato il suo ultimo film sulla Chiesa politica e le ingerenze ecclesiastiche contro gli ebrei
Al cinema Ariston di Catania è andato in scena il film Rapito. A presentarlo, prima della proiezione, è stato il regista del film, Marco Bellocchio, vincitore del premio per la miglior Regia agli ultimi David di Donatello per il film Esterno Notte (2022). Al suo fianco gli attori Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi, membri del cast dell’ultima opera del regista.
A far da moderatore dell’incontro, organizzato dal cinema Ariston insieme con 01Distribution e Rai Cinema, il regista catanese Zavvo Nicolosi (di recente in sala con il film La primavera della mia vita con Colapesce e Dimartino) che ha dialogato con gli ospiti e il con pubblico in sala su tematiche, modalità di produzione e curiosità attorno al film di Bellocchio, definito dal collega siciliano come «uno dei più grandi registi viventi».
Rapito è stato presentato in anteprima al 76° Festival di Cannes, in concorso per la Palma d’Oro, e ha ottenuto 9 candidature ai Nastri d’Argento 2023.
Subito dopo aver concluso Esterno Notte, Bellocchio ritorna con questo film sulla storia italiana realizzando un melodramma storico: il protagonista è ancora un prigioniero politico, questa volta bambino, “rapito” nel giugno del 1858 per volontà del papa-re Pio IX.
Sullo sfondo della nascita dello stato laico italiano, il film racconta, con accuratezza storica, di una delle scelleratezze perpetrate dal centro del potere cattolico romano: il sequestro di bambini a famiglie ebraiche, da parte delle autorità clericali, che esercitavano con violenza anche il potere temporale nelle terre ancora parte dello storico Stato Pontificio, fino alla liberazione avvenuta nel 1870.
Il trailer del film
Bellocchio ha raccontato al pubblico catanese che l’idea del film è nata casualmente, dopo aver visto in libreria il testo di Vittorio Messori, scrittore e giornalista cattolico che ha ricostruito la storia del Caso Mortara, vicenda che divenne, all’epoca, celebre anche a livello internazionale.
Edgardo Mortara, protagonista di Rapito, a sei anni è stato sottratto dalla famiglia ebraica di appartenenza, per essere trasferito in un collegio a Roma e allevato come cattolico, sotto la custodia del Papa, a causa di un battesimo ricevuto da neonato all’insaputa dei genitori. Le leggi dello Stato Pontificio vietavano a persone di altre fedi di crescere figli battezzati e la famiglia Mortara perse, dunque, la patria potestà sul bambino.
Colpito dalla vicenda, Bellocchio si sofferma sulla tematica della conversione forzata, imposta a Edgardo Mortara, una «violenza che subisce questo bambino rapito», come la descrive lui stesso, ma che costituisce anche un mistero che lo affascina. «Mi sono chiesto come mai, quando lui aveva la possibilità di essere liberato e tornare nella sua famiglia, decida di mantenerle entrambe, quella d’origine e il Papa, come suo secondo padre» ha raccontato il regista e, solo secondariamente, sono seguite le questioni politiche e polemiche, presenti nel film, contro i soprusi della Chiesa, disposta anche a mistificare la verità pur di piegare al proprio volere gli ebrei, storici avversari del Cattolicesimo.
Un momento della presentazione del film al Cinema Ariston (foto di Gaia Tripi)
La conversione del bambino ebraico è stata paragonata, da Zavvo Nicolosi, alla Sindrome di Stoccolma, con cui il rapito soccombe al rapitore e accetta la situazione in cui si ritrova: «Certamente c’è, nel bambino all’improvviso solo, in un universo che non conosce, uno spirito di sopravvivenza – ha spiegato Marco Bellocchio – in qualche modo si difende accettando il compromesso».
Il cammino però non è lineare, è un «percorso accidentato e contraddittorio» che, fino all’ultimo, fa dubitare della sincera conversione di Edgardo. Bellocchio mostra la confusione che il plagio, imposto a un bambino di sei anni, genera nella sua mente.
Bombardato da rituali e oggetti sacri, ora ebraici, ora cristiani, questi assumono agli occhi di Edgardo la forma di vuoti simboli di scaramanzia. Lo sguardo del bambino impotente verso il mondo adulto diventa uno strumento di denuncia: costretto a una complicità forzata, incapace di opporsi sia alla gonna della madre sia a quella del Papa, finirà per ribellarsi, rabbioso, contro entrambi.
Il film è meticolosamente costruito con grandi scenografie, un accurato studio di costumi e della legge dell’epoca, e gli attori che interpretano la famiglia Mortara si sono preparati a lungo per il ruolo, per imparare, con un consulente ebraico, le preghiere e i rituali casalinghi – come lo Shabbat - che i personaggi recitano nel corso della vicenda.
Da sinistra Marco Bellocchio, Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi e Zavvo Nicolosi (foto di Gaia Tripi)
Barbara Ronchi, che nel film interpreta Marianna Padovani Mortara, la madre di Edgardo, ha raccontato come questi momenti di preparazione abbiano unito il cast in una sorta di nucleo familiare, facendo loro sentire l’importanza di testimoniare l’accaduto, permettendole di capire più a fondo ciò che una madre, in una simile situazione, può provare.
«Forse la paura più grande che aveva – ha spiegato l’attrice - era che il figlio si dimenticasse di lei per scegliere un’altra famiglia. Questo per me era molto doloroso e commuovente».
Anche Fausto Russo Alesi, nel film nelle vesti di Salomone Mortara, ha parlato dell’emozione di interpretare un genitore che ha vissuto un’esperienza «così forte e traumatica».
«Mi sono chiesto a che cosa ci si aggrappi di fronte a un’ingiustizia simile. Marco Bellocchio ha voluto, sin da subito, che ci concentrassimo sulla vicenda umana, perché quella è senza tempo. I personaggi che racconta nel suo cinema, e in questo film, sono specchio, per noi attori e spettatori, di contraddizioni tipiche dell’essere umano».