Dal Neolitico all’età del Bronzo emergono, attraverso la circolazione di gruppi umani all’interno di un Mediterraneo sempre più movimentato, le tecniche e le idee che hanno plasmato il volto identitario dell’isola
Un cammino tra le pieghe della terra e le tracce della memoria materiale, quello descritto dal Convegno internazionale La ceramica in Sicilia e nell’Italia meridionale dalla Preistoria all’età contemporanea, ormai giunto alla sua VI edizione. In virtù di un approccio diacronico, ampio spazio è stato dato nella parte iniziale agli interventi dedicati alla ceramica preistorica, soprattutto in Sicilia e più in generale nel Meridione (vai all’articolo di approfondimento). Dalle forme campaniformi del III millennio a.C. alle produzioni brune e brunite dell’età del Bronzo, gli studiosi hanno restituito l’immagine di un’isola dinamica, al centro di una fitta rete di scambi che intrecciava il mondo continentale europeo con il Mediterraneo.
Un esempio di sincretismo nelle tecniche ceramiche è dato dal fenomeno campaniforme, su cui è intervenuto Alessandro Bonfanti, ricercatore di archeologia e antropologia. Lo studioso, infatti, ha preso in esame lo sviluppo del gruppo in Sicilia, analizzandone le origini e le influenze sulle culture preesistenti dell’isola.
Ciò che traspare è una prospettiva più dinamica e complessa, che consente di cogliere la natura policentrica e relazionale del fenomeno, caratterizzato da scambi, adattamenti locali e interazioni tra le differenti comunità: la facies del vaso campaniforme, lungi dall’essere una semplice diffusione culturale, è sintomo di una dispersione di gruppi umani che, nel corso del III millennio a.C., andarono costituendo, come ha chiarito Bonfanti, «una serie di isolette culturali disseminate in tutta Europa».
Il vaso campaniforme – così denominato per la sua caratteristica forma a campana rovesciata, secondo la definizione di Daniela Cocchi Genick – trova la sua principale attestazione in contesti funerari, suggerendo un valore simbolico e rituale legato al mondo della morte e dell’aldilà. Tuttavia, le analisi condotte su alcuni reperti, che hanno rivelato tracce di alcolici all’interno dei vasi, aprono ad un’interpretazione più articolata: esso sarebbe stato utilizzato anche per il consumo di bevande fermentate, durante riti di tipo conviviale o cerimoniale, probabilmente collegati al simposio dei guerrieri, secondo una tradizione riconducibile al mondo indoeuropeo.
Se è vero che la facies campaniforme è localizzabile originariamente nell’area centro-settentrionale dell’Europa e databile alla seconda metà del III millennio a.C. e non è estranea a fenomeni coevi come quelli del megalitismo europeo, la sua dispersione interessò anche il Mediterraneo occidentale, toccando la Corsica, la Sardegna e infine la Sicilia, in particolare le coste del palermitano e del trapanese. Questo percorso testimonia la capacità delle comunità preistoriche di stabilire reti di contatto e scambio attraverso il mare, facendo della Sicilia un nodo fondamentale di collegamento tra l’Europa continentale e il Mediterraneo.

Un momento dell'intervento di Alessandro Bonfanti
Ed è proprio in questo contesto che si è posto l’intervento coordinato da Orazio Palio ed Emanuele Torrisi (DISFOR, Università di Catania), sulle ceramiche dell’età del Rame della Grotta 1 di Marineo, sottolineandone la portata della mobilità, dell’identità e della trasformazione culturale, elementi che segnarono in modo profondo la preistoria europea e mediterranea.
Ubicato specificamente nel comune di Licodia Eubea, nel settore centrale dell’isola, il sito di Marineo si configura come un punto cruciale tra l’area orientale e quella centro-settentrionale della Sicilia, assumendo un ruolo di collegamento culturale e tecnologico di grande rilievo. Le prime indagini sistematiche condotte dal gruppo di ricerca, tra il 1988 e il 1989, si sono concentrate su due cavità di origine carsica: una prima, la Grotta 1, ed una seconda, situata ad una cinquantina di metri a nord, la Grotta 3.
Già gli scavi degli anni ‘80 avevano restituito dati di notevole interesse, documentando una lunga e continua frequentazione del complesso, che si estende dal Neolitico (6000 cal. BC) fino ad almeno l’età bizantina (VIII sec. d.C.). Tale longevità d’uso testimoniata dalla sequenza stratigrafica mostra una comunità umana stabile, capace di adattarsi ai mutamenti culturali e ambientali nel corso dei millenni.
Dentro la Grotta 1 – seppur priva di una stratigrafia completamente ricostruita –, i livelli più antichi sono caratterizzati da frammenti ceramici con decorazione impressa imputabili alla facies di Stentinello (Neolitico medio), e attestano una prima, seppur sporadica, occupazione del sito. Infatti, sarebbe solo a partire dal Neolitico finale che la grotta comincia a essere abitata in modo sistematico, come i frammenti di ceramica in stile Diana-Spatarella segnalano, documentando una frequentazione sempre più articolata. A queste si aggiungono brocche e ciotole della facies di Malpasso e Sant’Ippolito, inquadrabili nelle fasi finali del Rame. Frammenti di ceramiche in stile San Cono suggeriscono, infine, contatti diretti con le Isole Eolie.
Nella Grotta 3, le evidenze mostrano un uso abitativo continuo a partire dalla fine del Neolitico, con rari momenti di abbandono. Tuttavia, tra il Rame finale e il Bronzo medio, la funzione del sito muta profondamente: la grotta assume connotati rituali e cerimoniali, connessi a pratiche di culto e deposizioni funerarie, come risulta durante la fase Thapsos, con la creazione di spazi dedicati ad attività di tipo simposiale, rivelando un’articolazione sociale e simbolica delle comunità locali.
Se alcuni frammenti di ceramica campaniforme testimoniano la presenza di gruppi provenienti dal Mediterraneo occidentale e dall’Europa settentrionale; altri di ceramica castellucciana (Bronzo antico), oltre a fusarole e altri elementi di tessitura rinvenuti in entrambe le grotte, attestano invece le attività della vita quotidiana svolte all’interno degli spazi.
Il quadro che emerge dalle indagini è quello di un paesaggio umano dinamico e stratificato, in cui si intrecciano funzioni abitative, rituali e produttive, e in cui le grotte assumono un ruolo di continuità e trasformazione attraverso i millenni, nell’ambito del quale si possa «leggere l’evoluzione della ceramica come un flusso continuo nell’articolazione tecnologica e dei modi di vivere dei gruppi umani presenti all’interno dei determinati contesti», come ha chiarito in conclusione Emanuele Torrisi.

Un momento degli interventi di Orazio Palio e Emanuele Torrisi
All’interno di questo dinamico scenario di scambi culturali oltre i confini dell’isola trova posto il contributo di Flavia Giacoppo (docente del Disum, Università di Catania), la quale ha presentato un’analisi incentrata sulle ceramiche brunite dell’antico Bronzo, ricostruendo la mobilità umana tra l’area etnea e la Campania attraverso lo studio dei processi di produzione.
La studiosa ha aperto gli ultimi lavori illustrando come lo studio della chaîne opératoire - ovvero l’analisi delle fasi tecniche della produzione ceramica, dalla foggiatura al trattamento superficiale, dalla nascita alla morte utile dell’oggetto - possa fornire indizi preziosi sui movimenti di persone, «poiché queste tecniche si fondano prevalentemente su delle articolazioni tecnologiche spesso molto radicate nelle singole tradizioni - ha affermato Giacoppo - tanto che una variazione di questo processo di formazione può tradursi nel presunto contatto con altre comunità».
Il termine ceramica “brunita” (dall’inglese burnished) indica un particolare trattamento di lucidatura della superficie dell’argilla che conferisce al vaso un aspetto lucido; spesso nella letteratura italiana lo si trova associato al termine “bruna” , con cui si fa invece riferimento al colore dell’impasto o al tipo di cottura, in ambiente riducente.
In Sicilia, queste produzioni compaiono nell’Eneolitico con la cultura di Piano Conte nelle Eolie, diffondendosi in buona parte dell’Italia meridionale. Tali tradizioni sembrano poi interrompersi, per riemergere nel corso del II millennio a.C. con due tipologie di ceramiche: il gruppo Rodì-Tindari-Vallelunga, ampiamente studiato; ed un secondo gruppo, localizzato in area etnea, con tazze carenate e anse sormontanti, simili ai tipi castellucciani, tanto da essere considerate rientranti in una tipologia di castellucciano bruno», ma con una tecnologia produttiva differente, ha chiarito Giacoppo.
Esempi significativi provengono, da una parte, dai contesti votivi e funerari, come il deposito Sapienza e la Grotta Maccarone, dove accanto a fabbriche locali compaiono manufatti d’importazione collegabili ai primi contatti egeo-elladici con la Sicilia; dall’altra, presso altri siti, come Valcorrente (Belpasso), le grotte laviche di Barriera e Canalicchio e il sito di Monte San Paolillo, dove sono stati individuati frammenti di tazze con incisione sotto l’orlo e anse asciformi, caratteristiche della facies di Palma Campania, attestata nell’Italia meridionale nella prima metà del II millennio a.C.
La studiosa ha concluso affermando che «la reintroduzione delle tecniche di brunitura, potrebbe essere il risultato di un processo di assimilazione e rielaborazione di modelli peninsulari da parte delle comunità castellucciane, dando luogo a vere e proprie forme di innovazione tecnica e stilistica, nonché l’apertura a scambi di carattere culturale con le comunità peninsulari».

Un momento dell'intervento di Flavia Giacoppo
Le ricerche presentate convergono in un’unica e suggestiva direzione: la Sicilia come osservatorio privilegiato nel comprendere come ceramica non sia soltanto un manufatto, ma un vero e proprio linguaggio, testimonianza viva dell’identità in movimento, ed un profondo indizio della circolazione di idee, tecniche e simboli nel Mediterraneo. Attraverso le forme dei vasi, le tecniche di raffinazione e le tracce di ritualità, la preistoria siciliana si rivela come uno spazio aperto alle connessioni, dove l’incontro tra popoli genera innovazione.