«Sei tu il re dei Giudei?». Uno sguardo esegetico al processo a Gesù

Carmelo Raspa, presbitero della Diocesi di Acireale, analizza il contesto ebraico entro cui si muove il processo a Gesù, evento centrale della cristianità e della storia dell’umanità

Gabriele Cristiano Crisci

Conosciamo Gesù di Nazareth perché un certo numero dei suoi seguaci trasmisero ricordi relativi alla sua persona che divennero parte di una memoria collettiva che perdura ai nostri giorni. Altri ricordi presero forme di brevi unità narrative: un miracolo, una controversia, un discorso. L’annunzio del Regno di Dio rappresenta il cuore del messaggio di Gesù, predicatore itinerante e carismatico che segna indubbiamente la storia umana. Uno degli eventi cardine dei racconti trasmessi dai Vangeli canonici è il processo a Gesù. Proprio su quest’ultimo si è focalizzato il terzo incontro de I lunedì del classico.

Nell’intervista che segue, don Carmelo Raspa, presbitero della Diocesi di Acireale e docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico San Paolo e la Pontificia Facoltà Teologica San Giovanni Evangelista di Palermo, prende in esame l’humus e la temperie culturale entro cui si muove il processo al Nazareno, prediligendo uno sguardo esegetico-filologico e un sentiero d’indagine intertestuale tra il Nuovo e l’Antico Testamento.

Perché il processo a Gesù costituisce un unicum?

«Il processo a Gesù è stato oggetto di dibattito tra gli studiosi a causa della non chiarezza e concordanza delle fonti che ne riportano lo svolgimento, in questo caso i Vangeli Sinottici e il Vangelo secondo Giovanni. La discussione verte sulla composizione degli organi giudiziari ebraici al tempo in cui esso fu celebrato come pure sull’osservanza o meno delle modalità giuridiche; allo stesso tempo, ci si chiede quale sia stata l’effettiva posizione in merito delle autorità romane, rappresentate da Ponzio Pilato», spiega don Carmelo Raspa.

Munkacsy - Christ in front of Pilate

Munkacsy - Christ in front of Pilate

“Sei tu il re dei Giudei?” (Mt 27,11). Così Pilato apostrofa Gesù, dinanzi ai sommi sacerdoti e agli anziani. Formula che troviamo anche nel titulus crucis, cosa vuole dire di fatto essere “re dei Giudei”?

«La formula sembra riferirsi all’attesa messianica da patte di Israele, cioè quella di un re discendente di Davide che avrebbe ricostituito la grandezza di Israele – spiega -. In realtà, ciò non poteva rappresentare una realtà per il potere romano; allo stesso tempo, la formula non potrebbe indicare un crimine di lesa maestà, se non probabilmente solo per il titolo “re”. Probabilmente, il sintagma esprime, in forma ironica e canzonatoria, l’astio romano verso il popolo ebraico, diventando, tuttavia, nella penna degli evangelisti, un titolo cristologico».

Pilato si lava le mani. Un gesto che poi è divenuto un’espressione proverbiale, ma di cui sappiamo davvero poco. Gesto conforme ad una consuetudine attestata storicamente o da ricondurre all’ambito della teologia?

«Il gesto di Pilato ha paralleli nel mondo greco-romano, ma, nel contesto, sembra richiamare una prassi tipicamente ebraica – continua -. A parere di J. Gnilka “Echeggia qui il detto del Salmo: Laverò nell'innocenza le mie mani (25,6; cfr. 72, 1 3). Per la comprensione della nostra espressione si può portare a confronto il rito di espiazione di Deut. 21,1-9, che doveva essere seguito allorquando si trovava qualcuno che era stato ucciso e non se ne conosceva l'assassino. Gli anziani della città dovevano uscire e versare in un ruscello il sangue di una giovenca sgozzata, lavarsi le mani e dichiarare: Le nostre mani non hanno versato questo sangue; e i nostri' occhi non hanno visto nulla. Sullo sfondo c'è la concezione arcaica del sangue versato che, alla maniera di un potere malefico oggettivato, minaccia l'autore dell'omicidio e tutti coloro che entrano in contatto col sangue”. Considerati su questo sfondo, il gesto e le parole di Pilato vogliono allontanare da lui il potere malefico del sangue versato».

«Egli considera l'uccisione di Gesù un'ingiustizia e in tal modo dichiara pubblicamente che Gesù è innocente. La formulazione: Sono innocente di questo sangue, ha anch'essa modelli veterotestamentari (LXX 2 Reg. 3,28; cfr. Sus. 46). Nel contesto essa richiama 27,4 e 6, dove Giuda e i gerarchi cercano di liberarsi del sangue innocente di Gesù – continua -. La dichiarazione d'innocenza da parte di Pilato prosegue al v. 19. La prosecuzione sarebbe ancor più stretta, se si potesse privilegiare la lezione lo sono innocente del sangue di questo giusto, ma non è possibile. La frase di Pilato alla folla può essere tradotta in due modi: Vedetevela voi (è affare vostro), oppure: Lo vedrete. In quest'ultimo senso viene quindi riferita alla distruzione di Gerusalemme, che in seguito all'uccisione di Gesù sigilla il destino del popolo».

Un momento dell'intervento di don Carmelo Raspa

Un momento dell'intervento di don Carmelo Raspa

Il “Gesù storico”, il “Gesù ebreo”, il “Gesù politico”. Si tratta della stessa figura?

«Si tratta delle interpretazioni o, meglio, delle sottolineature date della stessa persona che è Gesù. Il Gesù storico fa riferimento ad una questione, emersa soprattutto con R. Bultmann, circa l’impossibilità di ricostruire la vicenda di Gesù, per cui Bultmann preferisce porre la sua attenzione al “Cristo della fede” – racconta don Carmelo Raspa -. In realtà, lo stesso Bultmann avvertiva circa l’importanza della storia di Gesù e dell’impossibilità di separarla dal dato di fede. La ricerca sul Gesù storico nelle sue diverse fasi ha condotto alla riscoperta del Gesù ebreo: il dato può sembrare scontato, ma non lo è stato né nella teologia né nella predicazione ecclesiastica. L’ebraicità di Gesù, infatti, costringe ad interpretare il suo insegnamento ed i suoi gesti a partire dalla sua appartenenza al mondo ebraico e ciò influenza notevolmente l’esegesi del corpus che si definisce Nuovo Testamento. Gesù è stato poi rivendicato da diverse correnti di pensiero moderne e contemporanee (femminismo, sinistra, movimento queer, ecc.): l’essere politico di Gesù andrebbe forse individuato in un’azione di Gesù che non lascia immutata la storia».